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La mappatura della Liguria
con le famiglie di 'Ndrangheta
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Quella realtà di Diano Marina
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oscurando noi. Tutta la storia.
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La messa in sicurezza latita,
la bonifica è lontana e qualcuno
vuole anche riaprire la Discarica.
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IL CASO - Centro storico, confiscati e destinati a ludoteca gli immobili di proprietà della mafia
UNA CASA PER FAR GIOCARE I BAMBINI
AL POSTO DEI BASSI DELLE "LUCCIOLE"
di Marco Preve
Le loro inquiline erano prostitute, e il loro padroni di casa la mafia trapiantata a Genova. Ma tra poco tempo, alcuni bassi dei vicoli potrebbero ospitare uno "sportello della legalità" e una ludoteca per i bimbi dei caruggi. Tutto questo sarà possibile grazie alla confisca definitiva, sancita nei giorni scorsi dalla Cassazione, di due appartamenti della zona di via Orefici, più tre "bassi" nei dintorni della Maddalena, tutti utilizzato per lo sfruttamento della prostituzione.
Locali che erano stati sequestrati a seguito di indagini patrimoniali della Dia, la Direzione Investigativa Antimafia di Genova. I beni immobili, valutati intorno al mezzo milione di euro, appartengono ad un pregiudicato già in carcere (condannato a 18 anni e sei mesi), affiliato al clan mafioso degli Emanuello-Fiandaca, giudato dal noto boss Piddu Madonia. Rosario Caci, di 50 anni, originario di Gela ma da anni residente nel capoluogo ligure. Per gli investigatori che si sono spesso occupati di lui, in particolare il pm Anna Canepa, è uno dei boss della città vecchia, ed avrebbe dato ospitalità a latitanti mafiosi di un certo livello. Per anni avrebbe gestito diverse "case chiuse" nel centro storico, a volte intestandole alla sua convivente. La confisca verrà ora gestita dalla Corte d'Appello di Caltanissetta che aveva pronunciato la prima sentenza di sequestro.
La legge sui beni mafiosi prevede, dopo la confisca definitiva, l'assegnazione degli stessi ad associazioni ed organismi che operano nel sociale e non hanno fini di lucro. Nei prossimi giorni i giudici siciliani riceveranno il primo progetto di riutilizzo che ha come capofila i promotori locali della Casa della Legalità (l'associazione del movimento antimafia legato a Rita Borsellino, sorella del magistrato ucciso dalla mafia), e la Fondazione Antonino Caponnetto, la Comunità di San Benedetto, Legambiente, Terre des hommes, l'Unione Donne Italiane e la Consulta Ligure dei Consumatori.
«La nostra intenzione - spiega Christian Abbondanza, animatore della Casa della Legalità di via Piombelli a Rivarolo - è quella di creare uno spazio con due caratteristiche. La prima è la nascita di uno sportello della legalità e dei diritti per aiutare chi in situazioni ambientali difficili vuole comunque ribellarsi alle imposizioni dei poteri criminali. E poi vorremmo creare uno spazio per i bambini del centro storico, in cui abbinare momenti ludici a quelli dell'educazione alla legalità».
Negli ultimi tempi sono sensibilmente aumentati in Liguria i provvedimenti di sequestro e confisca di beni come misure di prevenzione antimafia. In particolare gli ultimi provvedimenti sono stati frutto di lunghe indagini dei finanzieri del Gico, Gruppo investigativo criminalità organizzata, e degli investigatori della Dia, la direzione antimafia.
C'è anche qualche magistrato, nella fauna dei furbetti & furboni dello scandalo Banditalia. Non i magistrati che doverosamente scoperchiano l'ennesima fogna. Ma i magistrati a cui furbetti & furboni si rivolgevano per coprirsi le spalle. Fiorani parla di giudici del Tar che aggiustano sentenze. Consorte chiacchiera con l'ex presidente del Tribunale milanese Francesco Castellano, trasversale quant'altri mai: regala le attenuanti generiche a Berlusconi, prescrivendo le tangenti Fininvest a un'altra toga, Renato Squillante; poi fa da consulente al capo dell'Unipol, garantendo sulla presunta «linea morbida» dei pm romani (dopo quattro mesi, la Procura capitolina s'è poi decisa a trasmettere il fascicolo a Perugia per la strana ipotesi di millantato credito).
Ieri poi Repubblica ha diffuso una conversazione intercettata tra l'ispettore-capo di Bankitalia, il superfazista Francesco Frasca, e il governatore Fazio. Frasca racconta che qualcuno «ha avuto un duro scontro col Procuratore generale. Gli ha detto che stavano facendo un disastro dal punto di vista economico di cui potevano essere responsabili. Allora lui ha avuto paura». E Fazio: «Bene, è arrivato a più miti consigli, va bene, va bene».
È il sogno di tutti i potenti: spaventare i magistrati con i «danni all'economia» che deriverebbero dalle loro inchieste e ridurli «a più miti consigli». Oggi come oggi l'impresa è piuttosto ardua. Non basta avere un magistrato amico, o intimidito. Ci si può mettere in tasca un procuratore generale, o un procuratore, ma l'azione penale resta un potere «diffuso», di cui è titolare ciascun pm.
Essendo i pm circa 1500, è impossibile controllarli o spaventarli tutti. C'è sempre qualcuno che sfugge al guinzaglio e alla paura. Ma durerà poco, pochissimo: col nuovo ordinamento giudiziario, che entrerà in vigore non appena l'apposito Castelli varerà i decreti attuativi della legge-delega, il procuratore capo tornerà a essere il dominus dell'ufficio, titolare unico dell'azione penale, come venti o trent'anni fa. E se un pm farà le bizze, potrà levargli l'inchiesta (oggi può farlo solo in casi eccezionali, motivandolo per iscritto).
Anche le avocazioni dei Pg diventeranno pane quotidiano. Basterà controllare poche decine di procuratori capi e generali, o due o tre nei posti chiave.
Quando la giustizia funzionava così, era una giustizia di classe. Infatti i processi a carico dei colletti bianchi venivano regolarmente avocati e trasferiti nei porti delle nebbie. Il caso petroli a Genova nel '73, a Milano Piazza Fontana a Milano, i fondi neri dell'Iri, le inchieste su P2 e Sindona, a Torino le schedature Fiat.
Nei suoi diari scritti nel 1981, due anni prima di morire ammazzato, il capo del pool antimafia presso l'ufficio istruzione di Palermo Rocco Chinnici racconta le gesta del procuratore generale Giovanni Pizzillo. Che gli raccomandava prudenza nel parlare di mafia, lo accusava di essere «un comunista» e naturalmente di «rovinare l'economia» con le indagini sui «galantuomini»: «M'investe in malo modo dicendomi che stiamo rovinando l'economia palermitana disponendo indagini a mezzo della Guardia di Finanza. Mi dice chiaramente che "devo caricare di processi semplici Falcone" in maniera che cerchi di scoprire nulla, perché i giudici istruttori non hanno mai scoperto nulla. Osservo che sono i giudici istruttori di Palermo hanno scoperto i canali della droga tra Palermo e gli Usa e tanti altri fatti di notevole gravità. Cerca di dominare la sua ira, ma non ci riesce. Pizzillo ha insabbiato tutti i processi di mafia. Mi dice che la dobbiamo finire, che non dobbiamo più disporre accertamenti sulle banche».
E poi c'è il procuratore Vincenzo Pajno, che «nella forma gesuitica che gli è congeniale mi ha telefonato per dirmi che era andato a trovarlo Nino Salvo indignato per le notizie di stampa» sulle telefonate intercettate fra i Salvo e il boss Tommaso Buscetta. Anche allora il guaio non era la finanza sporca: erano i magistrati, le intercettazioni, i giornali. Non solo per gli imputati, ma anche per certi magistrati.
Con la controriforma Castelli, c'è il rischio che i magistrati diventino tutti così. Si spera che, una volta al governo, il centrosinistra rada al suolo quella porcheria: senza distinguo, senza se e senza ma. Altrimenti dovremo concludere che la nostra classe dirigente, trasversalmente, è incompatibile con una magistratura indipendente. E forse anche con il codice penale.
IL FENOMENO
Una cinquantina di negozi in Valpolcevera sarebbero ostaggi di sottili intimidazioni
della 'ndrangheta
"Non paghi il "pizzo"? Perdi i clienti"
La mala minaccia cattiva pubblicità ai commercianti nel mirino.
La Dia genovese indaga
di Matteo Indice
E' una forma di ricatto "strisciante", un'intimidazione radicata nei luoghi, e nel tempo, che sta cambiando pelle e sulla quale - da almeno un mese e mezzo - è al lavoro anche la Direzione investigativa antimafia genovese. Al vaglio degli inquirenti c'è infatti una dettagliata segnalazione sulla riscossione del "pizzo" in Valpolcevera, l'esazione mensile di somme non troppo elevate ma costante, il cui mancato pagamento comporta ritorsioni diverse da quelle "tradizionali" e molto eclatanti.
Tra Bolzaneto e Rivarolo, da un paio d'anni, sta succedendo qualcosa di diverso. Un po' come se l'attenzione degli "esattori", legati alla criminalità organizzata ed in particolar modo alla 'ndrangheta, si fosse concentrata su un gruppo ristretto di commercianti.
"Una cinquantina di esercizi della zona - si conferma in ambienti investigativi - subisce intimidazioni continue, mentre per una cerchia equivalente la situazione cambia a seconda del periodo". Le pressioni dei malviventi riguarderebbero il circuito delle attività meglio avviate, quelle in grado di racimolare mensilmente la cifra richiesta senza rallentare eccessivamente gli affari. La Dia ha drizzato le antenne una volta ricevuto un corposo dossier della "Casa della Legalità" con sede in via Piombelli, a Rivarolo, un lavoro frutto di decine d'interviste "confidenziali" che hanno fatto lievitare l'interesse investigativo. E' ovviamente premesso, nell'informativa, che «il fenomeno risulta, alla luce della paura degli stessi individui che ci hanno contattato, difficile da contrastare senza la volontà di denuncia da parte delle vittime. Inoltre il pagamento del pizzo impone agli esercenti di doversi garantire un'entrata maggiore e ciò ricade sul consumatore, sul prezzo che questi deve pagare per una merce assoggettata alla "tassa mafiosa"». Ciò avviene quando il pagamento all'organizzazione si concretizza «con denaro contante oppure sotto la fornitura di generi vari ai "rappresentanti” in modalità gratuita. Il fenomeno non è inoltre uniforme su tutto il territorio, ma concentrato in alcune zone, prescelte dalle mafie per ragioni di opportunità. Altrettanto variabile è la cifra, quasi un adattamento all'andamento del mercato delle rivendicazioni criminali».
Interessante è il paragrafo sulle modalità di rappresaglia verso quanti decidono di non pagare. Nelle carte inviate alla Dia all'inizio di novembre si precisa come il pizzo venga «chiesto agli esercenti più attivi in quel periodo, saltando chi ha avuto difficoltà, chiedendo somme non eccessive ma quanto basta per far comprendere il controllo di quel pezzo di territorio, garantendosi omertà e silenzi più che una fonte di guadagno ingente. Chi non paga, come chi non si piega alle ingerenze, non vede il proprio negozio bruciare e però si ritrova colpito dalla "cattiva pubblicità", tanto che viene diffuso l'invito alla comunità di non entrare più in quel locale, di non comprare più nulla da quel commerciante ridicendone sensibilmente il volume d'introiti».
23.12.2005 - L'inchiesta vecchio stile/1
Benvenuti a Furbettopoli
Paura che torni Mani pulite. Mutazioni genetiche dei partiti, al servizio degli affari. La Lega trasformata in Guardia di Ferro della coppia Fiorani-Fazio. E i disagi segreti che agitano i Ds, preoccupati del «loro» Giovanni Consorte, il «furbetto rosso»
di Gianni Barbacetto
Uno spettro s’aggira per l’Italia. La paura di una nuova Tangentopoli. Anzi, a essere precisi con le parole, di una nuova Mani pulite che riapra una stagione d’indagini sull’illegalità come sistema, che riprenda gli arresti in serie, che arrivi ai piani alti della politica. Le manette scattate ai polsi del banchiere Gianpiero Fiorani e dei suoi sodali e le indagini sui furbetti del quartierino hanno innescato una sindrome Mani pulite che serpeggia nei palazzi romani del potere. A leggere certi resoconti dei più attenti tra i cronisti politici, sembra di essere tornati al 1992, al totomanette, all’attesa del disastro. Tanto che il direttore del Corriere della sera si è sentito in dovere di tranquillizzare il Paese, rassicurando, nell’editoriale del 16 dicembre, che non siamo alla vigilia di una nuova Tangentopoli.
Si passerà dai furbetti ai loro padrini di partito? Le celle si apriranno anche per chi aveva dei conti molto speciali nella banca di Lodi e per chi da Roma sosteneva, tifava, tramava? Oppure la bufera passerà lasciando solo i soliti strascichi di polemiche tra i partiti? Per ora sappiamo solo che Donato Patrini, l’assistente di Fiorani, in un interrogatorio davanti ai magistrati di Milano ha spiegato: «Fiorani indicava il nome del politico, i recapiti, l’importo del finanziamento o del fido che Popolare di Lodi doveva erogare. Io compilavo i documenti, raccoglievo la firma del parlamentare, aprivo il conto ed erogavo i denari. Ero l’ufficiale di collegamento con i politici. Per due anni siamo andati avanti così». È l’evoluzione della tangente, senza quella sgradevole sensazione delle buste che passano o delle valigette che girano.
Quanto s’allargherà lo scandalo lo sapremo nelle prossime settimane. Ma comunque vada, il problema resta: non soltanto perché è curioso che una vicenda giudiziaria semini il panico in Parlamento, ma perché le vicende dei furbetti hanno reso visibile una nuova specie di Tangentopoli ancora senza nome, un inedito sistema di rapporti perversi tra affari e politica, una Partitopoli, una Furbettopoli che non può certo essere lasciata come problema da risolvere alla magistratura.
Anzi, i giudici non hanno alcuna competenza sulle omissioni, sui sostegni silenziosi, sulle complicità inconfessate, sui patti non scritti tra la finanza e i politici. Eppure sono questi ultimi che nobilitano le illegalità dei furbetti, le innalzano dal quartierino e le fanno diventare sistema. A destra come a sinistra. Le indagini giudiziarie potranno indicare le illegalità più evidenti, potranno al massimo rendere visibili le connessioni più esplicite, ma poi dovranno essere la politica e la comunità degli affari a rompere il sistema, a fare pulizia, a cambiare rotta: se vorranno.
Profezie realizzate. Manette o no, la nuova Furbettopoli comincia a delinearsi. Uno che se ne intende, Sergio Cusani – finanziere di Tangentopoli, imputato di Mani pulite e oggi impegnato nel volontariato nonché consulente finanziario del sindacato – l’aveva profetizzata. Lo va dicendo da qualche anno: altro che 1992, i veri intrecci di potere sono quelli che oggi la finanza e le banche hanno costruito proprio sulla base della debolezza di imprese e partiti usciti sfiancati da Tangentopoli.
Intendiamoci, le antiche, gloriose tangenti continuano a esserci, anche se governate da un diverso sistema: ai vecchi partiti-dogana, con le loro regole inflessibili, i loro imprenditori di riferimento, i loro cassieri segreti, si sono sostituiti – dice Cusani – centri più informali, sistemi più flessibili. Come dimostrano le mille storie di corruzione venute alla luce negli ultimi tempi (pur senza alcun clamore mediatico), i nuovi protagonisti sono i feudatari che presidiano i valichi di passaggio della spesa pubblica, i tanti vassalli e valvassori di una nuova corruzione che, al passo con i tempi, non è più «centralista» ma «federalista».
Al di sopra di questa rete, però, resta l’iperuranio dei grandi affari, dei grandi intrecci, dei grandi poteri. Le banche, le telecomunicazioni, il gas... È questo l’ancora inesplorato mondo della nuova Partitopoli su cui le indagini Fiorani cominciano a mostrare qualche elemento.
Un altro che Tangentopoli, quella vera, l’ha conosciuta, l’ex democristiano Bruno Tabacci, oggi esponente dell’Udc e presidente della commissione Attività produttive della Camera, da tempo va ripetendo che si sta affermando una nuova degenerazione dei rapporti tra affari e politica. Tabacci la racconta così: la politica ha perso peso, la finanza ha preso il comando. Risultato: i furbetti del quartierino fanno quello che vogliono. Sulla pelle di milioni di risparmiatori raggirati e derubati. Bipop Carire, Banca 121, Cirio, Parmalat, i bond argentini... Ora la Popolare di Lodi.
«Massimo D’Alema dice che questa storia delle banche non interessa alla gente, agli elettori. Ma com’è possibile continuare a minimizzare così?», s’indigna Tabacci. «Stiamo vivendo una stagione vergognosa in cui la politica non esiste più e i furbetti da anni fanno ciò che vogliono. Dall’opa Telecom a oggi, i nomi che girano sono sempre quelli».
Già. Da subito Chicco Gnutti, Giovanni Consorte, poi Gianpiero Fiorani, Stefano Ricucci e la nuova compagnia di giro degli immobiliaristi. Tutti all’ombra del Number One, come lo chiamavano confidenzialmente, l’ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio che voleva diventare il nuovo Cuccia, ma suonando la carica della finanza cattolica contro laici e massoni.
Oggi la magistratura è arrivata a indicare quella del banchiere di Lodi come un’associazione a delinquere. E sono scattati gli arresti. «Un epilogo inevitabile. Doveroso. Ma non mi rende allegro», commenta Tabacci. «Non si volta pagina con le inchieste della magistratura, con i rinvii a giudizio. Serve la politica. Salterà Fiorani, salterà Ricucci, salterà Consorte. Ma fin quando D’Alema dirà che queste cose non importano alla gente, non si cambia».
Già nel luglio 2005 era possibile capire l’essenziale sulle gesta della banda Fiorani e sulle distrazioni del governatore Fazio. Lo scrivevano i giornali (compreso Diario). Lo poteva capire la politica. Ma nessuno si mosse per raddrizzare la situazione, prima che fosse costretta a intervenire la magistratura.
Bruno Tabacci, implacabile, retrodata i tempi in cui era possibile intrevenire: già nel gennaio 2005. Il Parlamento era al lavoro per approvare la riforma sul risparmio, che conteneva anche il mandato a termine per il governatore e il passaggio all’Antitrust del controllo sulle concentrazioni bancarie. Nelle commissioni parlamentari le novità passarono, con il consenso determinante della Lega. «Poi venne da me Fiorani», racconta Tabacci a Diario. «Mi disse che il salvataggio che stava facendo di Credieuronord, la banca della Lega, aveva spostato gli equilibri. Io andai avanti per la mia strada, ma effettivamente, quando la riforma arrivò nell’aula della Camera, la Lega votò contro e tutto si fermò». Ma, secondo Tabacci, anche i Ds avevano intanto cambiato atteggiamento: «Fiorani era passato anche da loro, come ha confermato il capogruppo alla Camera Luciano Violante. I Ds sono rimasti incerti fino all’ultimo su come votare: avevano annunciato l’astensione, poi votarono con me, quando videro che tanto ero stato messo in minoranza e che le riforme erano bloccate».
I furbetti hanno rapporti e coperture a destra e a sinistra e padrini in tutti i partiti. Le indagini su Furbettopoli sembrano dare ragione alle intuizioni di Cusani e alle denunce di Tabacci: nel sistema, in primo piano sono gli uomini degli affari; i politici ci sono, ma al servizio dei primi. Un tempo era la politica a decidere la strategia. Sceglieva gli affari e le imprese, poi passava a riscuotere. Oggi è l’economia a mettere al suo servizio (e a volte a libro-paga) la politica.
Evidentemente Silvio Berlusconi ha fatto scuola. Ma ora il partito-azienda non è più uno solo. Così la Lega si è legata mani e piedi e si è consegnata ai disegni di Fiorani e Fazio. E, anche a sinistra: quanto hanno pesato le decisioni di Consorte sulle prese di posizione di Piero Fassino e dei Ds? Proviamo a fare una prima analisi, incrociando indagini giudiziarie e cronaca politica.
La Lega transgenica La Lega nord di Umberto Bossi non c’è più. È finita. Lo scandalo Fiorani ne ha decretato la fine. Non nel senso dei voti e del potere: per i voti, vedremo tra qualche mese; quanto al potere, la Lega non ne ha mai avuto tanto come oggi. Però si è trasformata in qualcosa di diverso. Dov’è finito il movimento che tuonava contro Roma ladrona, che in nome del popolo del Nord e del suo lavoro criticava il sistema dei partiti e i poteri forti? Dopo pochi anni di vita «romana» (e di governo), la Lega in trasferta nella capitale è diventata l’ancella di un progetto finanziario altrui, la Guardia di Ferro del Bel Banchiere di Lodi, anzi peggio: il braccio armato del romanissimo governatore Fazio.
L’hanno convinta il sogno «politico» della banca padana, certo, ma hanno aiutato molto i soldi. Quelli con cui Fiorani, con la regia di Fazio, ha salvato la Credieuronord , per esempio, la traballante banchetta della Lega affondata dall’incompetenza e dalle illegalità con cui è stata gestita, fino a conquistarsi il record di unica banca al mondo che in soli tre anni è riuscita a perdere quasi per intero il capitale sociale. Soldi prestati senza alcuna garanzia a pochi clienti eccellenti, che li hanno dissipati. Finanziamenti alla Bingo.net di Maurizio Balocchi, il tesoriere della Lega, finiti in un buco senza fondo.
Poi è arrivato Fiorani a salvare l’onore padano. Ma non a restituire i soldini dei tanti leghisti che ci avevano messo l’anima e i loro risparmi. Curioso: la piccola banca della Lega ha fatto, in piccolo, quello che tante potenti banche italiane hanno fatto, in grande, nei crac Cirio e Parmalat: salvare la faccia ai numeri uno e lasciare nella melma i piccoli risparmiatori. Come la signora Estella Gabello, il socio Adriano Rossi, la socia Corinna Zanon e infiniti altri leghisti che nel gorgo Credieuronord hanno perso, in un colpo solo, due cose uniche nella vita: il loro piccolo capitale e il grande amore per la Lega di Bossi. Da questa brutta storia il partito padano esce geneticamente mutato. Il suo popolo ha perso l’innocenza, per sempre. E basta leggere i verbali dell’ultima assemblea dei soci Credieuronord per convincersene. In più, non aiuta sapere che il ministro Roberto Calderoli aveva avuto dal Fiorani un bel fido di 13 mila euro, uno di quegli specialissimi fidi lodigiani che sembrano tanto un regalo. Certo, secondo quanto è emerso finora, il Calderoli non ne ha mai approfittato e fino a oggi ha lasciato dormire i soldini nel generoso conto della Popolare di Lodi.
Ma resta il fatto – ed è perfino più grave di un eventuale uso personale – che il partito ha subìto proprio una mutazione genetica: la Lega ha perso la sua autonomia di giudizio e di comportamento, ha dimenticato quanto era stata dura con Fiorani e Fazio in occasione dei crac Cirio e Parmalat, ha dimenticato i tanti piccoli risparmiatori del Nord imbrogliati non solo – diceva allora la Lega – da Sergio Cragnotti e Calisto Tanzi, ma anche dai banchieri che hanno scaricato sui risparmiatori la loro esposizione nei confronti di Cirio e Parmalat.
Tra quei banchieri c’era anche Fiorani, ma la nuova Lega se l’è dimenticato. La nuova Lega è la Lega di governo che ha preso il posto di quella Lega di lotta che oggi non c’è più. I nuovi politici padani hanno modulato gran parte delle scelte degli ultimi mesi sulle esigenze degli ex nemici Fiorani e Fazio. Da loro si sono fatti imporre l’agenda. Fino a farsi diventare sopportabile persino il Ricucci Stefano, che più romano non si può: ma, si sa, gli amici dei miei amici sono anche miei amici...
Negli altri partiti del centrodestra, i furbetti si erano garantiti, grazie ai conti molto speciali, il sostegno di alcuni uomini. Sono già emersi i nomi di Ivo Tarolli dell’Udc, di Luigi Grillo e Romano Comincioli di Forza Italia, di Aldo Brancher, ufficiale di collegamento tra Forza Italia e la Lega e «reclutatore» di Fiorani... «Lobbismo puro», spiega in un interrogatorio Fiorani a proposito di Grillo.
Ma anche qui: al di là della valutazione morale sui soldi accettati dagli uomini dei partiti, la novità è costituita dal fatto che la politica è ridotta a mero apparato di sostegno, pubbliche relazioni e lobbismo, dei progetti di qualcun altro. Con Silvio Berlusconi che, nell’ombra, sta a vedere come vanno a finire le scalate e se si riesce a destabilizzare il Corriere...
Il furbetto rossoQuanto ai Ds, è paradossale, ma s’intravvede qualcosa di simile, di speculare a quella che appare come la mutazione genetica della Lega. Saltando in tutt’altro contesto, cambiando schieramento, storia, ideologia, cultura politica, sembra purtuttavia di notare l’irresistibile attrazione che scelte fatte altrove (in via Stalingrado a Bologna) esercitano sul Botteghino. Una parte del vertice Ds – il presidente Massimo D’Alema, il segretario Piero Fassino, l’ex ministro Pierluigi Bersani, oltre a esponenti di rilievo come, tra gli altri, il senatore Nicola Latorre e il tesoriere Ugo Sposetti – hanno passato molto tempo degli ultimi mesi a difendere, spiegare, sostenere, giustificare le decisioni di Giovanni Consorte.
Ed è mai possibile che l’intero vertice di un partito politico abbia come prima preoccupazione quella che si rilasci in fretta l’autorizzazione a un’opa? Nel bel mezzo della bufera mediatica seguita alla notizia che anche Consorte è indagato, Pierluigi Bersani, Gavino Angius, Vannino Chiti sono andati avanti per giorni a insistere: ma quando ci dite se quest’opa si può fare o no?
Una volta, ai tempi del vecchio Pci, era il partito a decidere: la linea politica, ma anche i comportamenti negli affari e finanche la moralità degli iscritti. Ora soprattutto Fassino sembra invece affaticato alla rincorsa di una materia che pare non padroneggiare del tutto. Ha passato l’estate 2005 a difendere il partito dagli attacchi: in realtà a difendere Consorte e le sue scelte finanziarie. Ha dovuto moltiplicare le interviste e gli interventi anche perché doveva via via rettificare, precisare, spiegare, correggere se stesso. Con il mal di pancia crescente di settori del partito e di elettori del centrosinistra che non capivano perché tante parole ed energie fossero spese dal segretario per affermare che un misterioso odontotecnico con tanti soldi e strani giri immobiliari ha la stessa dignità imprenditoriale di chi rischia il suo capitale per creare ricchezza e posti di lavoro.
Certo, Stefano Ricucci è alleato di Giovanni Consorte e Consorte è forse il più grande finanziatore del partito. Le iniziative dei Ds e i festival dell’Unità sono sponsorizzati da Unipol. Ma basta questo per far diventare buona ogni sua scelta? E questo al netto della correttezza e a prescindere da eventuali reati commessi. Nel partito, nel sindacato, nel movimento cooperativo, molti dirigenti e militanti non capivano e continuano a non capire perché, visto che il movimento cooperativo ha dei soldini, li deve mettere proprio in una banca.
E non per pregiudizio anticapitalistico, per ingenua e antimoderna paura della finanza, quasi si trattasse di uno strumento del demonio. Non è affatto in discussione la legittimità di fare finanza, di farla anche a sinistra, né tantomeno il diritto per Unipol di comprare una banca. No. Le domande che sono maturate dentro il mondo dei Ds – anche se faticano a trovare espressione pubblica per paura di danneggiare il partito in una fase ormai già pre-elettorale – sono di tutt’altra natura. Non riguardano la legittimità della finanza in generale, ma da una parte la specificità dell’operazione in corso e la sua opportunità strategica e industriale, dall’altra l’eventuale illegalità dei metodi usati. Ecco le domande.
La prima: perché il movimento cooperativo, in un momento di declino e di grave crisi industriale del Paese, punta tutto su un investimento finanziario?
La seconda: perché rischiare così tanto in un investimento (Bnl) che, come hanno sostenuto i «cugini» del Montepaschi già nella primavera scorsa, potrebbe non dare i risultati sperati e anzi appesantire di debiti l’intero movimento cooperativo?
La terza: ma siamo sicuri che la scalata di Consorte a Bnl non sia stata fatta violando le regole, in una concertata partita doppia con l’assalto ad Antonveneta di Fiorani e sotto la benevola ala protettiva di Fazio?
La quarta: come mai Consorte e il suo vice, Ivano Sacchetti, hanno ricevuto affidamenti milionari dalla Popolare di Lodi e hanno realizzato strane plusvalenze da operazioni sui derivati?
Per rispondere a queste domande, conviene cominciare ad ascoltare il ragionamento di uno che non solo si sente Ds fin nel midollo, ma che si dice anche innamorato del movimento cooperativo: Carlo Ghezzi, ieri sindacalista e oggi presidente della Fondazione Di Vittorio della Cgil.
1. Perché proprio una banca? «L’Italia è il Paese di Silvio Berlusconi, imprenditore anomalo, rentier senza mercati. I suoi settori d’intervento sono la televisione, l’edilizia, le assicurazioni... Mercati protetti, fuori dalla vera competitività internazionale». La prende larga, Ghezzi. «Dunque è normale che il governo di Berlusconi attui una politica favorevole alla rendita. Così aggrava sempre più la crisi dell’Italia, che esce via via dai settori produttivi e dalla competizione internazionale. Invece, per cercare d’invertire questa tendenza, la politica dovrebbe interessarsi di dove va la nostra economia e dovrebbe favorire lo sviluppo delle forze produttive. Il programma del centrosinistra va in questa direzione. Cambia la direzione di marcia. Ma allora, in quest’Italia in declino, è un errore strategico per il mondo cooperativo puntare sulla finanza, invece di progettare un piano di sviluppo per il Paese. È una sciocchezza dire che tutti i settori sono uguali, che tutti gli operatori economici sono uguali, purché rispettino le regole. Chi produce e crea ricchezza per tutti non è uguale a chi vive sulla rendita. E un governo di centrosinistra dovrà premiare chi produce e crea ricchezza per il Paese e non, come ora, chi si arricchisce con la speculazione senza rischi di competizione».
Ghezzi prosegue il suo ragionamento: «È poi un errore tattico quello di puntare – in odio al capitalismo italiano, straccione, assistito, furbacchione – su personaggi che sono il peggio della finanza italiana. Regalando ad altri i rapporti con il capitalismo dei cosiddetti salotti buoni». Più in generale, continua poi Ghezzi, «una riflessione vera dovrà essere fatta, in questo contesto, anche dentro il mondo dell’economia cooperativa. È un mondo che va meglio del resto dell’economia italiana. E allora, io sono convinto che sia giusto che cresca. Che faccia finanza. Che si doti anche di una banca. Ma come crescere? Con gli stessi trucchi, le stesse furbizie, le stesse scatole cinesi del capitalismo familiare italiano? Mettendosi nelle mani di un Cuccia di sinistra che blinda, rastrella, s’indebita? Dicendo che i vecchi salotti del capitalismo fanno schifo e poi facendo noi le stesse cose?». Tutto questo, naturalmente, al netto di eventuali irregolarità. «Do per scontato», conclude Ghezzi, «che se ci sono illegalità e reati, allora il discorso cambia».
«Ma anche a prescindere da eventuali reati, per cominciare dobbiamo almeno farla finita con il cesarismo di manager che diventano padri padroni della loro cooperativa o della loro impresa, manager che non rispondono a niente e a nessuno. Dobbiamo inventarci una nuova governance e un nuovo rapporto tra soci e manager».
Le cooperative, che sulla carta sono le strutture produttive più democratiche del mondo, si sono trasformate nella realtà in entità monarchiche dove il carisma del manager pesa più di ogni altra cosa. L’architettura societaria di Unipol è un castello dei destini incrociati di cui, alla fine, solo il presidente riesce ad avere l’effettivo controllo. Consorte, certamente, ha il merito di aver salvato la compagnia dal fallimento, di averla risollevata e lanciata nell’empireo della finanza italiana. Tutto il mondo cooperativo (e tutti i Ds) gli devono molto. Ma basta questo a mandar giù ogni sua scelta?
2. Un’operazione antieconomica? Sono stati i Ds di Siena, che controllano la Fondazione che a sua volta controlla il Montepaschi, a dire che il re è nudo: l’operazione Bnl non conviene. È troppo costosa e rischia di appesantire di debiti il compratore. Certo, i senesi parlavano della loro convenienza a entrare nell’operazione. Ma, sotto, il ragionamento è questo: quella di Consorte è più un’operazione di potere che un business. Lancia Consorte al centro della finanza italiana, ma all’italiana: con una banca non proprio florida da ristrutturare e con debiti da pagare per anni. Ne vale la pena? Fa davvero bene al mondo cooperativo? Appena la scalata Bnl si profilò all’orizzonte, il presidente di Unicoop Firenze Turiddo Campaini sentenziò: «Non mi piace, è un’operazione inutile e rischiosa».
Ma a questo punto le domande sull’opportunità dell’operazione Consorte lasciano posto alle domande sulle eventuali illegalità.
3. Una scalata contro le regole? L’ordinanza del giudice preliminare Clementina Forleo parla chiaro: Fiorani e la sua «associazione a delinquere» «si erano da anni impadroniti del controllo della banca... gestendo il loro complessivo operato in pieno arbitrio». Per fare questo, aggiunge, «erano occorsi l’appoggio di importanti finanzieri italiani», «quali Consorte Giovanni e Sacchetti Ivano, rispettivamente presidente e amministratore delegato di Unipol». Basta rileggere i resoconti delle telefonate intercettate ai protagonisti delle scalate estive per rendersi conto che qualcosa non quadra. I rapporti Consorte-Fiorani sono strettissimi. Le due scalate, su Antonveneta e su Bnl, sembrano una cosa sola. Un unico, grande concertone. «Gianni, io mi sento sangue del tuo sangue... Tu sai che io sono sempre pronto e disponibile e lavoro anche un po’ sott’acqua, come tu hai capito bene», dice Fiorani a Consorte il 19 luglio 2005.
I giochi erano cominciati molti mesi prima, nel dicembre 2004. Consorte e Sacchetti avevano ottenuto un prestito da 4 milioni di euro ciascuno, senza garanzie, il 28 dicembre, tra Natale e Capodanno. Subito dopo parte il rastrellamento sotterraneo e incrociato delle azioni Antonveneta e Bnl. Unipol compra il 3,5 per cento di Antonveneta, mentre Lodi mette insieme l’1,4 di Bnl. Ben prima che le due scalate fossero dichiarate al mercato: miracoli della preveggenza. Le azioni Bnl – proprio come quelle Antonveneta – sono rastrellate dagli «amici» ben prima delle autorizzazioni. E Consorte fa parte del gruppo dei rastrellatori di Antonveneta, ricorda l’odinanza di custodia cautelare del giudice Forleo, che aggiunge: «Si trattava di persona particolarmente fidata, tant’è che ci si era rivolti a lui anche per la vicenda Earchimede...». Cioè la più importante delle operazioni fittizie messe in piedi da Fiorani per far apparire a posto i coefficienti patrimoniali della banca, che invece a posto non erano affatto.
Non solo. Fiorani, come dimostra la telefonata con bacio in fronte a Fazio della notte del 12 luglio, ha una linea diretta con l’arbitro che in realtà è il capo della tifoseria. Ma anche Unipol, pur con meno smancerie, ha la sua linea diretta con la Banca d’Italia. Lo stesso 12 luglio il vice di Consorte, Ivano Sacchetti, riferisce al capo che ha parlato con Francesco Frasca, il capo della Vigilanza di Bankitalia, per dirgli che è tutto a posto, «che nessuna banca ha dei problemi». Poche ore dopo, Consorte in persona chiama direttamente Frasca. Sono le 18.21: «Gianni gli dice che ha bisogno di lui», annota il brogliaccio della guardia di finanza. Alle 19.01 è Frasca a chiamare Consorte per dirgli che «il governatore voleva incontrarlo per capire bene tutta la struttura». Il giorno seguente, altri contatti per fissare il primo incontro, che sarebbe avvenuto alle 19 del 13 luglio.
Rastrellamento delle azioni condotto in modo sotterraneo e fuori dalle regole. Complicità nella falsificazione dei coefficienti patrimoniali della Popolare di Lodi. Rapporto privilegiato con Bankitalia. In che cosa, allora, la «scalata buona» (Bnl) si differenzia dalla «scalata cattiva» (Antonveneta)? Anzi, Consorte aveva anche l’asso nella manica: una «talpa» dentro il palazzo di giustizia, un giudice che (almeno a quanto dice Consorte, intercettato, ai compagni di scalata) avrebbe pensato lui ai giudici di Roma...
4. Operazioni personali? Non occorre essere geni della finanza per capire subito che i conti molto speciali di Consorte e Sacchetti (come quelli di tanti altri clienti molto speciali di Fiorani) erano regali mascherati, tangenti postmoderne. Che brutte le buste piene di soldi, le valigette 24 ore, le banconote impacchettate nella carta di giornale (come ai tempi di Mario Chiesa...). Sorpassati anche i conti all’estero e le società offshore (una volta si chiamavano Levissima, o Gabbietta, o All Iberian...). Ora i soldi arrivano con operazioni sui derivati. Agli amici si apre un conto a Lodi. Lo si riempie con un bell’affidamento senza garanzie. Lo si rimpingua con soldi provenienti da complesse operazioni finanziarie fatte dalla banca (sui derivati, appunto) senza che il cliente muova neanche un dito. I derivati sono strumenti delicati, fanno guadagnare, ma anche perdere (Raul Gardini, per dirne uno che ci sapeva fare, ci si è rovinato). Ma niente paura: i clienti speciali vincono sempre.
Consorte e Sacchetti ricevono 4 milioni di euro a testa, così, esattamente un anno fa. Soldini impiegati per vendite di opzioni put, di cui si occupano Akros e Barclays, su incarico della Popolare di Lodi. Ma nessun rischio, nessuna preoccupazione: i clienti stanno tranquilli a casa loro, e alla fine Fiorani fa arrivare sui due conti gemelli un guadagno di circa 1,7 milioni di euro a testa. Consorte affida il malloppo a Teti finanziaria, gestita da un prestanome. Sacchetti ripara il suo presso la Im immobiliare. Operazioni finanziarie personali e perfettamente lecite, sostengono i due in una nota diffusa il 14 dicembre dal loro legale Filippo Sgubbi. Non sembra pensarla così il giudice preliminare, che scrive di «clienti privilegiati», di «anomali affidamenti», di «operazioni parallele e sovrapponibili»... Appare davvero strano che i guadagni siano stati realizzati con vendite di opzioni put a prezzi molto più alti di quelli di mercato e con prelievo dei premi molto prima della scadenza dell’operazione. Insomma: c’era qualcuno che garantiva il guadagno, comunque fosse andata a finire l’avventura delle opzioni.
E comunque Consorte solo sette giorni prima, il 7 dicembre 2005, al Sole 24 ore aveva dichiarato tutt’altro: «Quelle sul mio conto sono operazioni di trading azionario che risalgono al 2001 e 2002... Noi con la Lodi , sia come azienda che come persone, non abbiamo fatto mai nessuna operazione. Neanche una». Ma quali sono, allora, le operazioni di trading azionario fatte nel 2001 e 2002? E perché ha negato i giochi sui derivati del 2005? Fatti i conti in tasca al numero uno di Unipol, si può calcolare che abbia portato a casa 14 milioni di euro, in quattro anni di operazioni sui titoli realizzate nella banca di Fiorani. Nel 2002 aveva raggiunto, senza garanzie, un fido di 7 milioni di euro: quanto l’utile mensile della Popolare di Lodi.
Le carte poi raccontano di altri giochi di sponda. Come quello che potremmo chiamare «operazione Quarto Oggiaro»: un favore fatto all’amico Fiorani, un giochetto senza perdite né guadagni. Nel marzo 2003 un prestanome di Fiorani, Eraldo Galetti, amministratore della società Liberty, ottiene dalla Popolare di Lodi, senza garanzia alcuna, un fido di 2,4 milioni di euro. Lo usa il 1 aprile per finanziare Liberty, che acquista la villa di Fiorani a Cap Martin. Ma così provoca uno scoperto di conto. Ripianato il 29 aprile con un assegno di 2,9 milioni di euro proveniente da Unipol, agenzia di Quarto Oggiaro. Che cos’era successo? Fiorani aveva telefonato a Consorte, chiedendogli di concedere al suo prestanome un affidamento di 2,9 milioni. Consorte aveva subito eseguito: ironia della sorte, aveva scelto, per facilitare l’acquisto della villa di Fiorani in Costa Azzurra, l’agenzia Unipol di uno dei più noti e meno attrezzati quartieri periferici milanesi.
Qualche giorno dopo, dicono le carte, il braccio destro di Fiorani, Gianfranco Boni, compiva la magia: faceva transitare sul conto di Galetti cinque operazioni di compravendita titoli, che fruttavano un capital gain, al netto, di 2,915 milioni. Da lì, bonifico verso il conto Unipol, per rientrare dell’affidamento concesso da Consorte. Con tanti ringraziamenti da Lodi.
Appare ben più discutibile, anche se ancora sotto giudizio, l’operazione realizzata da Consorte nel 2002 sulle obbligazioni Unipol: un episodio sul quale è in corso a Milano un processo per insider trading, in cui sono imputati, insieme a Consorte, il suo vice Ivano Sacchetti e il finanziere bresciano Emilio Gnutti. Un caso mai visto nella storia della finanza italiana: nessuna azienda vorrebbe mai rimborsare le obbligazioni emesse, la compagnia assicurativa bolognese invece aveva deciso di rimborsarle tre anni prima della scadenza naturale. Perché questa scelta apparentemente inspiegabile?
Consorte risponde: volevamo ridurre l’indebitamento, è stata la compagnia stessa a ricomprare, per risparmiare. «Ma l’unica spiegazione possibile è che si voleva favorire qualcuno, che sapeva del rimborso imminente», ribatte Beppe Scienza, autore del volume Il risparmio tradito. «Sono andato a spulciare le compravendite di quei titoli e ho scoperto movimenti interessanti. I due titoli in questione erano poco trattati, con volumi giornalieri bassissimi. Il 28 febbraio 2002 viene annunciato il rimborso, a 100 lire al titolo. Nelle settimane precedenti, le transazioni s’impennano. Passano di mano volumi per milioni di euro di uno dei due titoli (il 24 gennaio 2002 addirittura 20 milioni). L’altro titolo aveva ancora meno mercato, ma il 28 gennaio ne passano di mano 9,8 milioni. Curioso che in quelle settimane siano spuntati come funghi misteriosi investitori che hanno comprato milioni di euro di queste obbligazioni che prima non voleva nessuno. Chi comprava quei titoli, a prezzi inferiori alle 100 lire, doveva sapere in anticipo dell’imminente rimborso a 100 lire. Così chi ha comprato ha realizzato buone plusvalenze, mentre a perderci sono stati i risparmiatori che avevano comprato le obbligazioni e i soci dell’Unipol, che hanno perso 14 milioni di euro».
Se in quell’operazione del 2002 c’è stato insider trading, lo deciderà il tribunale. Certo è che, dal 2002 a oggi, Consorte si è sempre più integrato nel gruppo dei furbetti, con Gnutti e la sua corte bresciana prima, poi con Fiorani e i suoi amici lodigiani e poi ancora con i mattonari romani alla Ricucci. Di quel gruppo pronto a nuovi arrembaggi, per rinverdire i fasti dell’opa Telecom del 1999, è diventato la sponda a sinistra: il «furbetto rosso».
16.12.2005 - La Repubblica
Nell´ordinanza del giudice Forleo che ha mandato in carcere il banchiere, citate Frontemare, Pmg e Ligurcelle Fiorani, due indagati in Liguria
Società immobiliari usate per riciclare denaro erogato dalla Bpi. Nel mirino due costruttori Pesce di Cogoleto e Marazzina di Lodi
Architetti genovesi minacciati dopo aver rifiutato di aggiustare alcune volumetrie
di Marco Preve Ferruccio Sansa
Due indagati e accuse pesanti: Gianpiero Fiorani, l´ex padre padrone della Popolare di Lodi e i suoi più stretti amici e collaboratori, utilizzavano alcune società immobiliari operanti in Liguria per riciclare denaro che veniva erogato direttamente dalla banca lodigiana, «in assenza delle necessarie preventive deliberazioni degli organi competenti, al fine di appropriarsi indebitamente dei proventi di dette operazioni». Nell´inchiesta sulla Bpl prende forma e consistenza il filone ligure. Secondo il giudice milanese Clementina Forleo che ha firmato le 52 pagine dell´ordinanza con cui lo ha mandato in carcere, l´amministratore delegato della Lodi poi Popolare Italiana, di alcune di queste società era di fatto «un socio occulto». I due indagati sono: Pietro Pesce, costruttore di Cogoleto e Ambrogio Marazzina, lodigiano con numerosi interessi in riviera. Vicende che Repubblica ha già in parte raccontato anche attraverso l´intervista a due architetti genovesi che, tre anni fa, dopo aver rifiutato di "aggiustare" le volumetrie di un progetto ad Imperia hanno subito pressioni, denunce e minacce.
Le società. La Pmg che voleva realizzare una maxi operazione sulle aree ex Italcementi di Imperia ed è anche proprietaria dell´Aura di Nervi, l´ex fabbrica di cioccolato che nonostante una vertenza giudiziaria, è incredibilmente passata di mano in mano restando sempre nell´orbita di società controllate dalla Bpl che volevano trasformarla in residence ed è poi andata in liquidazione volontaria con l´assenso dei sindacati; la Frontemare di Alassio (sede nello studio del commercialista Gabriele Aicardi, coordinatore di Forza Italia) che vuole costruire palazzi e box in una grande area di terreni acquistati a Ceriale e resi edificabili dal nuovo piano urbanistico; la LigurCelle che nella cittadina rivierasca sta realizzando una palazzina su aree ex Ferrovie ed è al centro di un´inchiesta per abusi edilizi coordinata dal pm Giovanni Battista Ferro e sulla quale incombe una perizia che potrebbe portare ad un secondo sequestro, nonostante le varianti salva abusi della giunta comunale. La Ligurcelle Immobiliare venne creata dall´imprenditore di Cogoleto Pietro Pesce (oggi unico titolare) che viene citato nell´ordinanza del gip Forleo assieme ad Ambrogio Marazzina, costruttore a capo del grande gruppo lodigiano da anni legato a Fiorani. Sono infatti sempre gli stessi nomi che a giro compaiono nelle varie società sulle quali hanno indagato i finanzieri del Nucleo Regionale di Polizia Tributaria di Milano. Oltre a Marazzina e Pesce, ci sono quelli di Sergio Bianchi avvocato genovese e presidente della Pesce spa, e poi Aldino Quartieri e Marino Ferrari il primo commercialista di fiducia di Fiorani e l´altro considerato suo prestanome.
Silvano Spinelli, arrestato anche a lui nella retata, ha raccontato alla procura che «con il Fiorani aveva costituito una società di fatto al 50% in ordine ad una serie di società tra le quali Pmg e Ligurcelle». Fiorani, raccontano indagati e testimoni, seguiva direttamente gli affari. Alcuni testi hanno ricordato che venne un paio di volte per seguire il progetto di Imperia. In un esposto presentato alla procura di Milano, viene citato l´assessore all´urbanistica comunale Luca Lanteri ed il resoconto di un suo volo in elicottero, nell´autunno 2003, per esaminare le zone oggetto di interesse con Fiorani, il ministro Claudio Scajola e il costruttore Ignazio Caltagirone, quest´ultimo indagato per Antonveneta e impegnato nella realizzazione del nuovo porto di Imperia.
Su Celle gli inquirenti vogliono ricostruire il percorso dei 3 milioni di euro che sarebbero stati raccolti in nero attraverso la vendita di 240 box. Soldi non dichiarati, che diversi compratori hanno già confessato alla finanza di aver versato nella sede della Pesce spa. Le vendite avvenivano tramite agenzie immobiliari di Celle. Nell´edizione di ieri un ingegnere genovese ci ha raccontato come avveniva la trattativa. Elisa Manzi titolare di un´agenzia citata vuole però precisare: «Io ho venduto solo 14 box a differenza di altre agenzie, come il Vicolo, Repetto, Rovere che ne hanno trattati molti di più. I soldi in nero? Ha già raccontato tutto la persona che avete intervistato».
15.12.2005 – La Repubblica
IL TESORO IN RIVIERA DI FIORANI
E se nel tesoro segreto di Fiorani ci fosse anche qualche milioncino di euro targato Celle Ligure?
di Marco Preve
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E se nel tesoro segreto di Fiorani ci fosse anche qualche milioncino di euro targato Celle Ligure? Proviamo a raccontarlo partendo da una testimonianza diretta. «Ho comprato uno dei box e ho versato in nero 15mila euro, il 30% del costo. Come garanzia, mi venne detto che quei contanti sarebbero stati depositati alla Popolare di Lodi». Carlo è un ingegnere genovese ed è uno dei 240 proprietari di altrettanti box auto realizzati in una discussa operazione edilizia di Celle Ligure, la cui storia, negli ultimi mesi, si è intrecciata con lo scandalo della Bpl e del suo ex padre padrone Giampiero Fiorani. Repubblica ha raccolto lo sfogo-confessione di uno degli oltre duecento acquirenti. Un racconto che l´uomo, un docente dell´università di Genova, ha già fatto agli investigatori della Guardia di Finanza. I militari in questi giorni stanno raccogliendo le deposizioni di altre decine di compratori convocati negli uffici dei comandi di polizia tributaria provinciale di Genova e Savona. Si sospetta che tutti abbiano pagato una parte della somma con dei "fuori busta" in contanti. In ballo c´è una cifra che oscilla tra i 3 e i 4 milioni di euro, mai dichiarati, che sarebbero finiti nelle casse della Bpl. La vicenda di Celle è di quelle destinate a creare forti imbarazzi anche sul fronte politico visto che la realizzazione delle due palazzine sulle ex aree Fs a due passi dal mare, è al centro di un´indagine per abusi edilizi del pm savonese Giovanni Battista Ferro. Violazioni che l´amministrazione di centro sinistra ha di fatto sanato con tre varianti al piano regolatore. «Nessun dubbio - spiega il sindaco Remo Zunino - questa è una delle operazioni migliori per il comune. Gli oneri di urbanizzazione hanno portato parecchi soldi nelle nostre casse quindi a tutti i cittadini. E comunque le varianti con cui abbiamo sanato alcune opere rappresentano solo il 20% del totale. Fiorani? E chi se lo immaginava all´epoca, e poi quelle erano scelte dell´impresa, con la quale abbiamo avuto anche forti divergenze. I box pagati in nero? Io non ho sentito niente ma se è successo qualcosa è compito della Finanza scoprirlo non certo nostro». Anche il vicesindaco Michele Manzi sostiene di non saperne nulla. «Io non ho le deleghe all´urbanistica. L´agenzia immobiliare che ha venduto dei box? Non è mia, è di mia sorella». «Con l´agente immobiliare, nel novembre del 2003, andai a Cogoleto nella sede dell´impresa Pietro Pesce - racconta l´ingegnere genovese che ha chiesto di mantenere l´anonimato -. Oltre a noi due c´era un altro immobiliarista e un amministratore della società ai quali consegnai i 15 mila euro in contanti». Queste due persone, Giuseppe Vallarino e Alberto Zavaglia (che non hanno voluto rilasciare dichiarazioni) sono state poi interrogate, in veste di testimoni, dal procuratore aggiunto di Milano, nonché capo del pool reati finanziari, Francesco Greco, che indaga sulla vicenda Fiorani. La società costruttrice, LigurCelle Immobiliare è stata costituita dall´imprenditore di Cogoleto Pietro Pesce, e con lui da Ambrogio Marazzina, a capo dell´omonimo gruppo edile lodigiano in strettissimi rapporti con Fiorani, e infine da Gianpaolo Bruschieri responsabile della logistica dello stesso gruppo. Il cantiere venne sequestrato dalla procura di Savona e poi dissequestrato dopo le varianti "salva abusi". La Finanza segue invece un filone diverso: quello dei pagamenti in nero per i box. Nel contratto di vendita, infatti, la società scriveva che in caso di mancata costruzione avrebbe risarcito l´acquirente, oltre che della cifra versata, anche di 15mila euro aggiuntivi «come anticipo convenzionale rifusione danni o altro». Una postilla fortemente sospetta che, ipotizzano gli inquirenti potrebbe essere servita a creare enormi riserve di nero. Ma quello di Celle non è l´unico rivolo ligure della maxi inchiesta sulla Popolare di Lodi poi Popolare Italiana. I magistrati che sono a caccia dei prestanome e degli affari di Fiorani, stanno infatti analizzando la documentazione relativa a diversi progetti rivieraschi (Imperia, Alassio, Ceriale, Nervi con l´ex fabbrica di cioccolato Aura) che vedono impegnati alcuni imprenditori lombardi, assieme ad un ristretto nucleo di costruttori e uomini d´affari genovesi e savonesi.
La battaglia del coraggio
La Casa della legalità è un presidio della lotta alla mafia. Concerti, giochi e incontri per scuotere le coscienze e combattere la paura
di Giorgio Viaro
«Il nostro obiettivo è promuovere una cultura della legalità e della giustizia sociale. Combattere il disagio delle periferie abbandonate, quale la Val Polcevera è a tutti gli effetti».
A parlare è Christian Abbondanza, che con la compagna Simonetta Castiglion è alla guida della Casa della legalità e della cultura.
Nata poco più di un anno fa, il 17 dicembre 2004, la Casa della legalità insegue i suoi obiettivi attraverso attività che vanno dal gioco inteso come momento di aggregazione, alle iniziative interculturali miranti a favorire l'integrazione tra le varie comunità etniche delle periferie cittadine. Ma soprattutto mediante un impegno in prima fila nella lotta alla criminalità organizzata.
«Siamo un vero e proprio osservatorio sulle mafie liguri», spiega Christian, «raccogliamo segnalazioni e promuoviamo indagini, fornendo tutte le notizie che raccogliamo alle autorità competenti. Diciamo che "diamo visibilità alla mafia". Esattamente quello che loro non vogliono...».
Una battaglia che Christian e Simonetta portano avanti in collaborazione con le principali associazioni per la lotta alla criminalità organizzata: la Fondazione Antonino Caponnetto, l'Associazione Riferimenti - Coordinamento Nazionale Antimafia, il Centro Falcone e Borsellino, Liberamente di Adriano Sansa, Libera contro le mafie di don Luigi Ciotti e Rita Borsellino e la Rete del bottone.
«La nostra azione non si limita a questo, ma si sviluppa poi con continuità attraverso incontri organizzati qui nella nostra sede e con i ragazzi delle scuole», prosegue Christian. «Nelle aule proiettiamo i video di Paolini e quelli di Lucarelli (La mattanza, ndr), cercando di stimolare la riflessione e il dibattito. Mentre tra gli ospiti che già ci sono venuti a trovare ci sono Alfredo Galasso, avvocato delle parti civili in tutti i processi contro la mafia, Elisabetta Caponnetto, Adriano Sansa, Giancarlo Caselli. E a gennaio verrà anche il neoprocuratore nazionale antimafia Piero Grasso».
Accanto ad una battaglia così importante la Casa della legalità si propone anche nelle vesti più leggere di ludoteca e sala da ballo, come luogo di incontro e riqualificazione culturale della zona. «Teniamo tornei di Risiko, Sudoku, enigmistica ed altro ancora. Ospitiamo la sede genovese della scuola di scacchi afferente alla federazione nazionale. E poi organizziamo feste dedicate alle minoranze etniche. Dedichiamo i sabati sera alla black music, trasformandoci in disco-bar. E spesso mettiamo in piedi dei concerti importanti». Il prossimo dei quali è previsto per il 22 dicembre, in occasione dell'anniversario della morte di Joe Strummer. «Qui da noi si terrà il tributo nazionale con ospiti i Gang, la band italiana che ha raccolto l'eredità dei Clash». Biglietto di ingresso a 10 Eu, con maglietta ufficiale dell'evento in omaggio.
Spigliato, ironico, allegro, Christian vive le sue battaglie con un'incredibile leggerezza. Nessuna paura? «La paura è naturale», mi risponde. «Chi non avrebbe paura di quello che può accadere? Ma quello che davvero mi spaventa è la distanza che si può creare tra chi si impegna in prima linea come noi e la gran parte della cittadinanza, spaventata e per questo lontana. Ci sono giorni in cui qui non entrano più di cinque persone...».
La Casa della legalità è in zona Rivarolo, in via Piombelli 15. Se volete informarvi sulle loro iniziative potete collegarvi al loro sito: www.genovaweb.org.
Mentelocale: www.mentelocale.it
Dicembre 2005
Vent'anni per lavare i panni sporchi
Manuela Mareso
Il 12 dicembre del 1985 una diciassettenne di Saponara, impiegata in una tintoria, veniva uccisa dalla mafia per aver trovato in una camicia da lavare un documento che non avrebbe dovuto leggere. A un anno dalla condanna in primo grado degli esecutori, le motivazioni della sentenza ancora non sono state rese note
Oggi Graziella avrebbe 37 anni. Forse un marito e dei bambini. Di sicuro una famiglia numerosa – i genitori, quattro sorelle e tre fratelli con i rispettivi coniugi e figli – cui dedicarsi. L’aveva sempre fatto, del resto: poco più che adolescente, era sempre attenta alle esigenze dei suoi cari; per la nipotina di tre mesi, poi, aveva un debole. Appena poteva, libera dal lavoro, si occupava di lei e le confezionava piccoli indumenti. Come quel maglioncino di lana che ancora oggi suo fratello Piero, padre di quella bambina oggi ventenne, conserva. È rimasto a metà, perché una sera che avrebbe dovuto essere come tante altre, trascorsa in famiglia a sferruzzare dopo una giornata di lavoro in tintoria, Graziella non fece più ritorno a casa.
La camicia dell’ingegnere. Originaria di Saponara (Me), Graziella scomparve a Villafranca Tirrena, dopo essere uscita dal lavoro, la sera del 12 dicembre 1985. Il suo cadavere, barbaramente sfigurato da cinque colpi di fucile a canna mozza, sarebbe stato ritrovato due giorni dopo a Forte Campone, sui monti Peloritani, al confine tra Villafranca e Messina.
Dopo anni di indagini depistate, processi aggiustati e disinteresse da parte dei grandi organi di informazione, l’11 dicembre 2004 (a diciannove anni dall’accaduto) la Corte di Assise di Messina ha finalmente emesso una sentenza contro i due esecutori dell’assassinio, Gerlando Alberti jr. e Giovanni Sutera (condannati all’ergastolo), e contro Agata Cannistrà e Franca Federico, rispettivamente collega e titolare della lavanderia presso cui Graziella lavorava (condannate a due anni per favoreggiamento).
All’epoca dell’omicidio la lavanderia “La Regina” era frequentata da due palermitani presentatisi come l’ingegner Toni Cannata e il geometra Gianni Lombardo. In realtà si trattava, appunto, di Gerlando Alberti junior (nipote di Gerlando Alberti senior, detto “’u paccarè”, braccio destro di Pippo Calò) e Giovanni Sutera, due latitanti ricercati per associazione mafiosa e narcotraffico internazionale, da tre anni nascosti nei pressi di Villafranca. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Graziella è stata uccisa perché, il 9 dicembre, aveva trovato in una camicia, lasciata in tintoria a lavare, un documento dal quale si capiva che l’ingegner Cannata aveva un’altra identità. Di quel documento, strappatole dalle mani dalla collega Agata Cannistrà, a cui la ragazza l’aveva fatto vedere, non si è più avuta traccia.
Non tutto è chiarito. «Quello che ci interessa è sì che siano condannati i colpevoli, ma soprattutto che si porti alla luce il fitto reticolo di connivenze a livello istituzionale che si nasconde dietro questo omicidio». A parlare è Nadia Furnari, presidente dell’associazione antimafia “Rita Atria”, che da dieci anni, in collaborazione con il Comitato per la pace e il disarmo unilaterale di Messina e grazie alla dedizione e alla tenacia dell’avvocato di parte civile Fabio Repici, sostiene la famiglia Campagna nella ricerca di giustizia.
La vicenda di Graziella – sconcertante quando si pensa quale prezzo la mafia costringa a pagare persone anche del tutto estranee agli affari dell’organizzazione – presenta molti nodi irrisolti. Certo il suo omicidio avvenne in un periodo caldissimo della storia di Cosa Nostra, e poteva apparire marginale: erano gli anni delle stragi e degli omicidi eccellenti (proprio nell’estate del 1985 erano stati uccisi Montana e Cassarà, vedi «Narcomafie» 7-8/2005, nda.), e si era alla vigilia del maxiprocesso; Messina, poi, era da sempre considerata – a torto – periferia di mafia e non luogo strategico per i traffici di armi e droga e per il riciclaggio di denaro sporco.
Ma la cronaca dei vent’anni in cui si è cercata la verità per l’omicidio Campagna rivela fatti di una gravità inaudita. A partire dagli ostacoli posti al fratello Piero, carabiniere all’epoca ventiduenne, mobilitatosi immediatamente per far luce sull’accaduto e redarguito dai suoi superiori per aver collaborato con i poliziotti della Squadra Mobile.
La verità era a un passo. «Che ci fossero delle collusioni a livello istituzionale – ci racconta Piero – fu subito chiaro. Contrariamente alla prassi istituzionale in casi analoghi, la Magistratura tolse la conduzione delle indagini alla Polizia, giunta per prima sul luogo del delitto e che aveva denunciato Gerlando Alberti jr. e Giovanni Sutera già un mese dopo l’omicidio di mia sorella, e la delegò al Nucleo Operativo dei Carabinieri di Messina». Questi solo il 3 settembre del 1986, 8 mesi dopo rispetto alla Polizia, e dopo molte resistenze, tra cui un tentato depistaggio per omicidio passionale, arrivarono a redigere un rapporto contro Alberti e Sutera. Fino ad allora i due erano comparsi nei loro verbali solo a seguito di un fermo avvenuto quattro giorni prima dell’omicidio di Graziella: l’8 dicembre 1985 vennero infatti fermati a bordo di una Fiat Ritmo rubata a Milano e il Cannata-Alberti, consegnando i documenti (falsi), cercò insistentemente di tranquillizzare i militari dicendo di essere amico del loro superiore, il maresciallo Carmelo Giardina. Approfittando poi di una distrazione dei due Carabinieri, Alberti e Sutera fuggirono.
Infiltrati nell’Arma. «Pochi giorni dopo l’omicidio di mia sorella – racconta ancora Piero Campagna –, fui invitato da alcuni poliziotti della Squadra mobile a fornire ulteriori dettagli. L’auto della Polizia su cui salii venne fermata dai Carabinieri e sorse una colluttazione giustificata con l’accusa di imprecisate ingerenze investigative. Fui poi convocato in caserma dal maresciallo Giardina e redarguito per aver fornito notizie alla Polizia, e in seguito mandato dal comandante del Reparto operativo, il maggiore Antonio Fortunato, che mi intimò di riferire ogni dettaglio a lui solo o al maresciallo Giardina. Nella stanza era presente anche un’altra persona, Giuseppe Donia, che mi venne presentata dal maggiore come proprio collega e che mi rassicurò sullo scrupolo che avrebbero adottato nelle indagini. Qualche giorno dopo, Donia mi confidò di essersi occupato personalmente della perizia balistica». Anni dopo Piero Campagna avrebbe incontrato Giuseppe Donia a Falcone, un paese in provincia di Messina, e avrebbe appreso dai Carabinieri del luogo che in realtà non era affatto un carabiniere, ma si spacciava come tale, e che era molto vicino a Gerlando Alberti.
Il mandato di cattura, a seguito del rapporto dei Carabinieri del 3 settembre 1986, venne spiccato il 18 marzo dell’anno dopo dal giudice istruttore Pasquale Rossi, che rinviò a giudizio Alberti e Sutera il 1° marzo 1988. Ma il 13 febbraio 1990 il pm Giuseppe Gambino chiese e ottenne (28 marzo) dal giudice istruttore Marcello Mondello il “non doversi procedere” nei confronti dei due imputati per non aver commesso il fatto: il movente dell’agendina-documento (tirato fuori per la prima volta a un mese dall’omicidio dal barbiere di fiducia dell’Alberti – che vide sussultare il latitante quando si rese conto di aver dimenticato il documento nella camicia – e poi rinforzato dal ricordo della madre di Graziella depositato quasi quattro anni dopo, nel maggio del 1989, che raccontò che il 9 dicembre la figlia le disse: «Sai mamma che l’ingegner Cannata non è lui?») viene giudicato troppo debole.
Caso riaperto, grazie alla tv. Da allora il silenzio, fino al 1996, quando in una puntata della trasmissione televisiva Chi l’ha visto? Indagine viene letta la richiesta di un’anonima professoressa di tornare a indagare sull’omicidio. Contemporaneamente, grandi e piccoli pentiti della mafia messinese iniziano a dire ciò che sanno sull’omicidio Campagna. Nove di loro fanno i nomi di Gerlando Alberti jr. e Giovanni Sutera, e spiegano l’agghiacciante contesto mafioso in cui era stato deciso l’assassinio. «Dal 1992 al 1996 – dice l’avvocato Repici – i collaboratori di giustizia interrogati a Messina erano stati un centinaio. A nessun magistrato era venuto in mente di chiedere cosa sapessero dell’assassinio di Graziella, che viste le modalità – cinque colpi di fucile a distanza ravvicinata – era chiaramente di stampo mafioso».
Furono queste testimonianze dei pentiti a far sì che la Procura di Messina richiedesse il 24 settembre 1996 la revoca della sentenza di proscioglimento e la riapertura delle indagini preliminari. Il tribunale di Messina riaprì il caso a dicembre. In realtà il processo avrebbe potuto ricominciare due anni prima: già nel marzo del 1994 il pentito messinese Salvatore Giorgianni aveva riferito al pm di Reggio Calabria Francesco Mollace sia le responsabilità di Gerlando Alberti, sia l’intervento di Santo Sfameni, un grande boss messinese con contatti in ambienti massonici, per addomesticare l’esito del primo processo, che si concluse con il proscioglimento degli imputati.
Ancora proroghe? Ma anche nella seconda metà degli anni Novanta molti elementi facevano intravedere la rete di complicità e protezioni che istituzioni dello Stato, imprenditori e politici avevano tessuto attorno all’omicidio. Sollecitato dall’accurato e indefesso lavoro dell’avvocato Repici, nel 2000 Nichi Vendola presentò un’interrogazione parlamentare. Nel 2001 Carlo Lucarelli, con una puntata dei suoi Misteri d’Italia, riportò i riflettori su un omicidio ingiustamente dimenticato.
Oggi finalmente si è arrivati a una sentenza di primo grado che l’11 dicembre 2004 ha condannato gli imputati, ma le ombre sembrano non essere svanite del tutto: a un anno dal suo pronunciamento, non è stato ancora possibile averne le motivazioni (su queste «Narcomafie» tornerà appena saranno disponibili). «Il termine di 90 giorni per il deposito delle motivazioni, già prorogato una volta – spiega Fabio Repici – in realtà non è perentorio. Mi hanno inoltre informato che il giudice a latere incaricato della scrittura è sovraccarico di lavoro. Certo è curioso che del processo Dell’Utri-Cinà, la cui sentenza era stata pronunciata negli stessi giorni – e si trattava di un processo complicatissimo – le motivazioni si siano avute già a luglio».
«Mai arrendersi». Lo scorso 12 dicembre a Forte Campone si sono ricordati i vent’anni dell’omicidio. Alla presenza di coloro che in questi anni si sono battuti per la ricerca della verità (in primis l’associazione antimafia “Rita Atria”, la cui presidente Nadia Furnari, proprio a seguito della trasmissione Chi l’ha visto? Indagine, contattò Piero Campagna offrendogli appoggio e ridando nuova forza alla soluzione del caso coinvolgendo l’avvocato Repici, all’epoca giovane praticante), è stata inaugurata una lapide voluta dai familiari di Graziella e da alcuni amici del fratello. Piero in questi vent’anni si è battuto strenuamente per portare giustizia all’omicidio della sorella. «Sono stati anni terribili, di abbandono e solitudine inimmaginabili. Nei primi 11 anni ho visto uccidere mia sorella due volte: dai suoi assassini e poi dalla Giustizia, che oggi sembra invece aver imboccato, con la sentenza di primo grado, una strada nuova. Continuare a fare il carabiniere in queste condizioni è stato durissimo, ma non ho mai voluto mollare, perché credo in questo mestiere svolto da tanta brava gente che sacrifica la propria vita. Le mele marce ci sono, ma non ci si può arrendere»
IL SECOLO XIX - IL CASO
L'ex moglie dell'imprenditore Mamone denuncia oscuri intrecci sul sito della "Casa della legalità".L'AZIENDA
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Abbiamo cercato, già che
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di rinnovarlo e migliorarlo.
Ci sono ancora alcune cose
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nei prossimi giorni.
Ma intanto si riparte!
Andiamo avanti.
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