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La mappatura della Liguria
con le famiglie di 'Ndrangheta
e le radici di Cosa Nostra.
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Quella realtà di Diano Marina
che vorrebbe oscurare i fatti,
oscurando noi. Tutta la storia.
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Le cementificazioni hanno un
prezzo come la mancata messa
in sicurezza del territorio
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La messa in sicurezza latita,
la bonifica è lontana e qualcuno
vuole anche riaprire la Discarica.
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LE INTERCETTAZIONI. Nelle telefonate ascoltate dagli inquirenti calabresi la rete delle amicizie e dei favori tra giudice e avvocati
'Ndrangheta, l'annuncio alla socia in affari
"Ho fatto annullare la sentenza"
di ATTILIO BOLZONI
VIBO VALENTIA - Da giudice è diventata "consigliori" e da "consigliori" è diventata socia. Occulta, accusano i poliziotti e i magistrati che l'hanno arrestata. Però mica tanto, stando alle 100 mila fra registrazioni telefoniche e ambientali che hanno alla fine rivelato l'eccellentissima Patrizia Pasquin, la presidente di sezione del Tribunale di Vibo Valentia, una che da un quarto di secolo amministrava giustizia sempre e solo in quel tribunale. E faceva affari soprattutto. Con qualche avvocato e qualche architetto sempre a caccia di soldi. Come il famoso penalista Filippo Accorinti che organizzava le combine con la giudice, per esempio aggiustavano insieme i processi.
Il penalista.
E allora il magistrato confessava alla sua amica Settimia, tutte e due sedute una sera su un gippone: "Lui è un furbone, eh, Accorinti è un furbone però è un amico, nel senso che guardandosi i cavoli suoi poi ti aiuta, eh...". E si sfogava ancora: "E perché tutti gli altri che sono? Gli altri fanno gli stro..., una si mette a disposizione e poi ti si girano pure contro, scusa allora è meglio uno così o no? Cara mia, è tutto un do ut des".
Comincia così, un giorno, a sentirsi la voce della giudice in una sala della squadra mobile di Vibo. E comincia così ad affiorare una trama. C'era un comitato di potenti che comandava in quella città. E tutti amici degli intoccabili, i Mancuso di Limbadi. Una dinastia di razza padrona. È in un carcere che due di quei boss, Diego e Mico, parlano dell'eccellentissima Patrizia Pasquin. E il primo dice all'altro: "Ho risolto i miei problemi". Erano di sorveglianza speciale. Da quel momento la presidente di sezione del Tribunale è stata ininterrottamente "ascoltata". La gente dei Mancuso di mese in mese si è irritata sempre di più per le sue esose richieste, qualcuno ha persino ipotizzato di troncare "bruscamente" questa amicizia. Qualcuno altro ha cominciato a chiamarla "la cinghiala".
Quarantuno i capi di imputazione formulati dalla procura di Salerno, ventidue quelli accertati dal giudice delle indagini preliminari. Prove e indizi tutti in quelle 100 mila registrazioni.
"Riga per riga".
"Speriamo che non confrontino riga per riga", le sussurrava un amico parlando del business che avevano in piedi da qualche mese, un mega finanziamento per un albergo a cinque stelle fra Parghelia e Tropea, il Melograno Village. Avevano falsificato le carte, l'eccellentissima giudice e i suoi complici, imprenditori e architetti e geometri. Avevano già intascato 948 mila 413 euro. E parte di quei soldi erano finiti già ai Mancuso. "Speriamo che non confrontino riga per riga" era riferito ai possibili controlli fra il Comune di Parghelia e l'assessorato regionale. Un incrocio di documenti e la truffa sarebbe venuta fuori molto tempo prima.
Parlava e parlava sempre Patrizia Pasquin. Ma mai dal suo cellulare. Aveva comprato due nuove schede e però da lì non partivano le sue telefonate. Partivano dall'utenza della sua domestica, quelle due nuove schede servivano solo a ricevere. Numeri che conosceva bene quella Settimia, Settimia Castagna, amica e socia della Pasquin.
Il processo
Un anno fa Settimia era preoccupata, temeva di essere sotto inchiesta. La sua amica giudice - con l'aiuto di un impiegato infedele - è entrata nel sistema della Procura di Vibo e l'ha rassicurata: "Non avere paura, non c'è niente su di te, solo un procedimento dove sei parte offesa". Non sapeva Patrizia Pasquini che tutta l'inchiesta su di lei e sugli altri quindici - proprio il coinvolgimento di un magistrato - era finita alla
Procura di Salerno.
Era un commercio continuo. Anche di processi. È quasi la fine dell'estate dell'anno scorso quando sempre l'avvocato Filippo Accorinti la chiama: "E allora, qui ci sono tre cause".
Risponde lei: "Eh".
Lui: "Una è quella della terrazza".
Lei: "... omissis...".
Lui: "Una è quella della divisione 98 barra....".
La Pasquini alza la voce, è incavolata con il suo amico che parla troppo chiaramente di processi al telefono. E gli ribatte: "Aspetta, adesso mi dite pure i numeri?.. dalla Corte di Appello mi è tornata indietro, quella dove abbiamo fatto annullare la sentenza...".
"Settimia, rischio di persona".
Per i poliziotti e i procuratori di Palermo la giudice avrebbe pilotato "7 o 8 cause" che riguardavano la sua amica Settimia Castagna, imprenditrice turistica e titolare della Green line, una società di floricultura. Eppure Settimia di tanto in tanto si lamentava con lei. E la giudice provava a tranquillizzarla: "Setti', per favore, non mi parlare più di questa cosa, perché mo' me la vedo con Filippo (l'avvocato Accorinti ndr). Quello che posso fare faccio, esponendomi oltre misura e rischiando pure di persona. E i risultati ci sono stati. Notevolissimi". La incalzava Settimia: "Tu come me la poni, sembra che me lo stai facendo a me il favore. Tu lo stai facendo a te stessa bella mia". E lei "Ma lo so, lo so". Settimia: "Tu devi dire: 'Dio ti ringrazio e mi sono sacrificata perché c'erano validi motivi per farlo'. E basta". Poi nel documento giudiziario c'è una sfilza di omissis, evidentemente una lunga lista di nomi ancora oggetto di investigazioni. Riprende la conversazione Patrizia Pasquin: "Ma all'inizio l'ho fatto per te". E dopo una lunga litigata la giudice le dice: "Per noi. diciamo per noi".
E' un altro giorno, un'altra conversazione sempre con Settimia Castagna dove il presidente di sezione del Tribunale quasi urla: "Gli ho fatto annullare la sentenza. più di così non si può fare".
Il Tappo e le salsicce.
In quel groviglio di registrazioni c'è di tutto. Dai piccoli vassallaggi ai grandi affari. Sottomissioni alle quali è costretto un costruttore edile che ogni mattina va a far la spesa alla giudice, un costruttore soprannominato "Il Tappo".
"Dottoressa vuole Wurstel e salciccia? E come li vuole i Wurstel, piccoli o grandi?". E "Il Tappo" la accontentava. Ogni tanto mandava qualche pacco di cibarie pure a Torino, dove studiava all'Università il figlio della signora. E ogni tanto mandava sua moglie Pierina a fare la spesa. Ma poi la giudice tornava a parlare di processi, di lottizzazioni, di firme di assessori comunali e regionali. Un giorno di ottobre riceve anche la telefonata dell'allora presidente della Regione Calabria Giuseppe Chiaravalloti. Scrivono i giudici: "Il Pm contesta alla Pasquin e a Chiaravalotti la sussistenza di un reciproco ulteriore patto corruttivo".
Chiaravalloti.
Ma è un'altra telefonata a mettere ancora più nei guai la giudice di Vibo. E' lei che chiama il governatore della Calabria: "Presidentissimo buongiorno salve". Chiaravalloti: "Ah Patrizia, dimmi". Poi c'è un omissis. E ancora la giudice: "Questo è importante e poi mi dici che in qualche modo ovviamente qua ti posso essere utile, poi insieme a quella mia amica bionda volevamo venirti a salutare". Lui: "Se c'è qualche inghippo mi dovete avvisare tranquillamente".
Una settimana dopo i due si risentono. E il governatore dice: "Io avevo una piccolissima istanza da proporti". La Pasquin: "Sì?". E il presidente: "Su mandato di un tuo collega, pezzo grosso, romano.. ah.. della Cassazione.. Allora, tu hai in decisione una causa.. Campisi Tema.". E lei: "Ah, sì". Chiaravalloti: "Poi tu te la guardi con comodo e poi, magari, se ci...". La Pasquin: "Ne parliamo. Io avrei individuato una soluzione". Il governatore: "Ci dobbiamo vedere, o vieni tu giù o vengo io su". E la giudice: "Noo". Il presidente taglia corto: "Quando Maometto vide che la montagna non si spostava, mise le gambe in spalla e andò dalla montagna". Questi sono soltanto frammenti di registrazioni. E' solo un piccolo pezzo di un'inchiesta appena iniziata sui potenti di Vibo Valentia.
Sono convinto: i nostri Servizi segreti operano - in generale - nel pieno rispetto della legge e della legalità democratica. Ma proprio per questo occorre fare chiarezza ogni volta che risultino dubbi per specifici casi. Configura uno di questi casi - a mio avviso - il sequestro in una sede «distaccata» del Sismi di Roma di un dossier che prevede di «disarticolare», «neutralizzare», «ridimensionare» alcuni magistrati. Confido che il Copaco, investito della vicenda dalla Procura di Milano, e il Csm - che ha aperto una «pratica» a tutela dei magistrati interessati - sapranno provvedere all´esigenza di chiarezza. In questo caso diminuirà l´inquietudine di molti, che va ben oltre il fatto di poter essere ricompresi nel dossier. È un´inquietudine che nasce - prima di tutto - dalla sensazione che lo stato di salute della nostra democrazia potrebbe non essere dei migliori. E poi dalla sgradevole constatazione che di «neutralizzazione» si parlava già nel famigerato «piano Solo».
11.11.2006 - l'Unità
L’intervista Antonio Ingroia
Per i pm “i capi mafia di oggi non hanno la statura e il prestigio dei vecchi boss. Ma c’è un sistema di potere da sempre immune a ogni repressione
“Scardinare la classe dirigente che vive di affari e favori mafiosi”
di Saverio Lodato /Palermo
Continuiamo a parlare di mafia, il suo profilo – apparentemente – è bassissimo. Dopo il procuratore Francesco Messineo, e gli aggiunti Sergio Lari e Roberto Scarpinato, interviene Antonio Ingroia, pubblico ministero nei processi di mafia più incandescente ormai da quindici anni.
Dottor Ingroia, il vulcano Napoli e una Sicilia Svizzera…
“Non direi. Penso infatti che sarebbe ora che nella lotta al crimine organizzato, in tutte le sue forme, lo Stato facesse la prima mossa senza aspettare, come è sempre avvenuto, che siano i boss a riaprire la partita. Quello che accade a Napoli è già accaduto in Sicilia tanti anni fa: omicidi, regolamenti di conti fra clan, taglieggiamenti, i poteri criminali alzano il tiro. Titoli da prima pagina e finalmente ecco che qualcosa si muove”.
Il governo però, questa volta, parla di interventi stabili e duraturi, non emergenziali.
“ E’ un reale segno di discontinuità, rispetto al passato, che ci aspettiamo. Una diversa e permanente attenzione alla questione mafia non cadendo nel solito trabocchetto che se la mafia non spara non c’è”.
E questo si manifesta a Napoli, in Sicilia ancora non si vede. E questo che vuole dire?
“Vorrei dire di più. La storia ci insegna e le risultanze investigative più recenti ci confermano, che la mafia è e si sente più forte quando spara. Ritorna allora una domanda di fatto: bisogna convivere con la mafia degli affari che fa la buona condotta, come auspicava l’ex Ministro Lunardi, o la mafia va comunque affrontata senza risparmio di mezzi?”
Il Procuratore Messineo non definisce la mafia un gigante inespugnamile. La fotografa per l’altezza che oggi ha. Un’altezza inferiore rispetto alla statura del passato. Concorda?
“Si. In ogni caso, continuare a disegnare la mafia come un gigante inespugnabile equivale a rassegnarsi alla sua eternità criminale: il contrario del realismo storico propugnato sia da Falcone sia da Borsellino. I capi mafia di oggi non hanno neppure la statura e il prestigio di boss del passato come Stefano Bontate, uomo ben inserito nei salotti palermitani e non a caso definito il Principe di Villagrazia… Il vero problema è semmai scardinare il sistema di potere che della mafia si è sempre servito e che rischia di rimanere immune da ogni ventata repressiva che inevitabilmente colpisce solo chi spara. E quando non si spara, il sistema di potere mafioso si perpetua”.
Dottor Ingroia, il suo collega Scarpinato parla apertamente del ritorno del Principe che in questo caso, no è solo quello di Villagrazia. E si spinge quasi ad affermare che la mafia viene accesa o spenta a piacimento proprio da quel sistema di potere al quale lei allude. Non potrebbe apparire eccessivo?
“Non credo proprio. L’altalena dei consensi attorno all’azione giudiziaria antimafia non è estranea a precisi interessi diffusi nella società siciliana. I rapporti fra braccio armato della mafia e classe dirigente siciliana e nazionale sono costituiti dall’alternanza di alleanze e contrapposizioni che talvolta sfociano nella guerra. Proprio nei momenti di crisi del rapporto fra i due mondi il consenso rispetto all’azione antimafia dei magistrati si dimostra frutto non di una disinteressata opzione a favore della legalità, bensì di smaliziati interessi di parte”.
Può fare degli esempi?
“Prendiamo la stagione post stragi. Come si spiega l’unanime consenso all’azione della magistratura finalizzata alla cattura dei grandi latitanti da Riina a Provenzano? E come si spiega l’enorme divario di consenso all’azione dei magistrati a seconda che si occupi della cattura dei latitanti ovvero che si occupi dei rapporti della mafia classe dirigenti? C’è qualcosa che non funziona. Non c’è solo una finalità autoprotettiva da parte della classe dirigente, c’è qualcosa di più…”
Cosa?
“Da una parte l’esigenza di ridimensionare l’aggressività di Cosa Nostra nei momenti in cui si affronta a viso aperto lo Stato, ma anche l’inconfessabile finalità di mantenere l’operatività di una mafia sommersa con la quale continuare a concludere affari nell’ombra”.
Se è così la mafia ce la porteremo dietro ancora per parecchio….
“Il rischio c’è. Ecco perché occorre un urgente segnale di discontinuità rispetto al passato. Un aperto segno di rottura con questa classe dirigente siciliana che ha vissuto di affari e di favori e che, tutt’ora, si dichiara antimafiosa. Siamo in una fase di grande confusione, anche di ruoli, e compenetrazioni fra mondi diversi. Sarebbe sbagliato parlare di società civile e ben separata dal mondo mafioso. Abbiamo oggi una mafia più civile e una società più mafiosa.
Siamo all’imbarbarimento?
“Una mafia sempre più in giacca e cravatta e una società che cambiandosi abito troppe volte al giorno sceglie il travestimento. Insomma, abbiamo interi pezzi di società che hanno ormai introiettato i modelli comportamentali dei mafiosi. E lo si vede in tutti i campi.
Quali?
“Ciò che si legge sui giornali è certamente allarmante”.
Si riferisce al fatto che Gian Carlo Caselli era nell’elenco dei magistrati “pericolosi” per i settori occulti del Sismi?
“Evidentemente Caselli, come procuratore di Palermo, dava fastidio. Del resto non sarebbe l’unico intervento contra personam che Caselli ha subito… Se questo è lo scenario, il vero segno di discontinuità non si da solo arrestando i mafiosi e con uno straordinario impegno di uomini sul territorio, lo si dà soprattutto con un taglio netto con quel pezzo di classe dirigente che è quel vero nucleo del sistema del potere mafioso”.
Ricorda Leonardo Sciascia quando diceva che lo Stato italiano se volesse fare davvero la guerra alla mafia dovrebbe decidere di suicidarsi?
“Aveva ragione. Ma è anche vero che è possibile una dolorosa operazione chirurgica, salvando le parti sane che sono la maggioranza. La questione è essere disposti a pagare un prezzo, se parliamo di politica, in termini di consenso”.
Sintetizza un pacchetto di misure antimafiose che la politica potrebbe varare e non vara?
“Tirare fuori dai cassetti del ministero della Giustizia – tanto per cominciare – il progetto del testo unico della legislazione antimafia varato dal primo governo Prodi e mai proposto in Parlamento”.
Che c’era scritto?
“La revisione e l’aggiornamento dei più importanti strumenti per colpire i due nodi del rapporto mafia – classe dirigente siciliana: la riforma del concorso esterno sul terreno mafia – politica, e la revisione degli strumenti per colpire i patrimoni dei mafiosi sul terreno mafia – economia. Sarebbe un’ottima partenza”.
Intervista a Elio Veltri di Paolo Jormi Bianchi
A seguito dell'omicidio Fortugno del 17 ottobre del 2005, avvenuto a Locri durante le primarie del centrosinistra, cominciò un'inchiesta del Ministero dell'Interno, parallela alle indagini vere e proprie che hanno poi portato all'arresto degli esecutori materiali dell'agguato. Pisanu diede incarico al prefetto di Vibo Valentia, Paola Basiloni, di presiedere una ristretta commissione amministrativa interna al ministero, che dopo circa un anno di lavoro ha prodotto una relazione.
La relazione Basiloni doveva rimanere segreta, per motivi che non sono mai stati chiaramente esplicitati, ed è tutt'ora depositata presso il ministero, a disposizione del ministro e del suo vice. Ciononostante, il Corriere della Sera e l'Unità, quest' ultimo con articoli di Elio Veltri, ne avevano anticipato alcuni contenuti. La situazione è precipitata quando il giornale Calabria Ora ha pubblicato la relazione, seguito dai siti internet Democrazia e Legalità, di cui è responsabile lo stesso Veltri, da Repubblica Online e Genovaweb.org, il sito della Casa della Legalità e della Cultura.
La Procura di Reggio Calabria ha disposto il sequestro dei computer dei curatori del sito di Veltri, il quale al momento risulta indagato (assieme a Vittorio Zucconi per Repubblica e Christian Abbondanza per Genovaweb), per aver divulgato la relazione.
Veltri esprime tutto il suo sgomento:
“Radio 24 con Giancarlo Santalmassi sta leggendo in questi giorni la relazione in diretta, a puntate, mentre il vice ministro Minniti è andato ad Anno Zero di Michele Santoro a dire a milioni di italiani che la relazione Basiloni andrebbe letta nelle scuole, perché permette di capire il rapporto che intercorre tra la ‘ndrangheta e la Calabria. Tutto questo non ha senso. Perché il ministero non rende pubblica la relazione se il vice ministro pensa questo? Perchè invece la Procura di Reggio Calabria agisce in questo modo, per di più in modo parziale, senza accorgersi che la relazione tanto segreta per cui sono indagato in questo momento la stanno trasmettendo tranquillamente alla radio?”
Veltri, cosa contiene questa relazione?
“ Emerge un quadro terrificante, degno della Colombia di Escobar. La Asl di Locri ha speso cifre enormi a carico della Regione per aprire 21 convenzioni con strutture private di proprietà delle cosche. I titolari erano pregiudicati. A nessuno è stato chiesto il certificato antimafia, tutti i figli dei capi delle cosche calabresi sono stati assunti nella Asl. Ci sono nomi e cognomi e si evincono facilmente responsabilità precise a tutti i livelli, ovviamente trasversali ai partiti.”
È questa trasversalità a spiegare il silenzio dei media su questa vicenda?
“ Non so se c'è ignavia, incultura, vigliaccheria, quello che so è che questo è un paese sempre più criminale. La prima motivazione del voto al partito democratico nelle ultime elezioni di mid-term negli Stati Uniti, è stata la preoccupazione per la corruzione. Come governatore di New York i cittadini hanno eletto il procuratore! I cittadini in tutto il mondo, e così in Italia, chiedono legalità. Ma in questo paese invece chi si batte per la legalità seriamente da anni come il sottoscritto viene spiato dal Sismi e zittito con iniziative come queste.“
Non avete ricevuto alcun sostegno?
“Ci ha fatto molto piacere una lettera del segretario di Magistratura Democratica Ignazio Juan Patrone, che si dice preoccupato. Abbiamo avuto il sostegno di alcune interrogazioni parlamentari, tra cui quelle dei Senatori Nardini e Falomi. Ma i media tacciono e il Ministero dell' Interno, ovviamente, pure. Democrazia e Legalità sarà presto in grado di tornare a informare tramite il proprio sito Internet, ma siamo una goccia nel mare… sono molto pessimista per il futuro di questo paese.”
'NDRANGHETA: ARRESTI NEL VIBONESE, C'E' ANCHE UN MAGISTRATO
VIBO VALENTIA - C'è anche un magistrato del tribunale di Vibo Valentia, tra le 45 persone coinvolte in un'operazione che la polizia di stato sta conducendo nel Vibonese. L'operazione è coordinata dalla Direzione centrale anticrimine e dal servizio Centrale operativo della polizia di stato.
Sono 15, al momento, rispetto alle 16 emesse dal gip distrettuale di Salerno, le ordinanze di custodia cautelare eseguite dalla polizia di stato.
Il giudice arrestato la scorsa notte dalla polizia di stato su ordine della Procura antimafia di Salerno e' Patrizia Serena Pasquin, presidente di sezione del Tribunale di Vibo Valentia. Al giudice vengono contestati i reati di corruzione semplice, corruzione in atti giudiziari, falso, truffa e abuso, reati commessi in favore di elementi vicini alla cosca dei Mancuso.
Gli arresti sono stati fatti, oltre che nel Vibonese, nelle province di Catanzaro, Cosenza e Reggio Calabria ed a Varese, con la collaborazione delle rispettive Questure. Complessivamente nell'operazione sono stati impiegati oltre 150 poliziotti.
Ci sono anche due avvocati tra le persone arrestate. Ai due professionisti vengono contestati la corruzione e la corruzione in atti giudiziari, reati commessi in concorso col giudice Pasquin. Le contestazioni mosse ai due avvocati fanno riferimento a presunti favoritismi di cui avrebbero beneficiato alcune persone vicine alla cosca Mancuso.
Ci sono altri due magistrati coinvolti nell'inchiesta. Secondo quanto si apprende da fonti investigative, collaboravano assiduamente con la Pasquin.
Tra gli arrestati c' e' anche un ex assessore della Regione Calabria, Ernesto Funaro, di 66 anni. Funaro, che e' un ingegnere - un passato democristiano, poi segretario regionale fino al 2000 degli allora Popolari (successivamente non e' nota un' appartenenza politica ufficiale anche se si parlo' di una vicinanza ad esponenti dell' Udc) - e' accusato di truffa aggravata ai danni dello Stato e falso. All' ex assessore sono stati concessi gli arresti domiciliari. Il suo coinvolgimento nell' inchiesta sarebbe da collegare ad una collaborazione tra il suo studio di ingegneria e le vicende edilizie riguardanti il comune di Parghelia.
COSCA MANCUSO, LA 'NDRANGHETA CHE DOMINA
Quella dei Mancuso e' considerata da magistrati e forze di polizia una delle piu' forti e potenti cosche calabresi, sia per le sinergie mafiose che e' riuscita a costruire negli anni sia per la capacita' di radicarsi e proliferare oltre che nelle regioni del Nord d'Italia anche in mezza Europa e in sud America. Potente dal punto di vista militare, la cosca Mancuso e' considerata tra le piu' efferate: ricorre spesso al metodo della lupara bianca e non disdegna gli omicidi tanto che nel 1996 il processo 'Eclissi' dimostro' la paternita' dei Mancuso in decine di delitti. Le prime tracce processuali della famiglia mafiosa risalgono ai primi anni '60, negli anni e' riuscita a creare sinergie importanti, come quella con le famiglie reggine dei De Stefano ed i Piromalli-Mole', con i quali sono entrati in affari quando la 'ndrangheta si sparti' gli appalti per lo sbancamento ed il materiale inerte dell' area del porto di Gioia Tauro.
Affari che adesso riguardano traffico di armi, stupefacenti e riciclaggio. Gli anni non sono passati invano: la famiglia Mancuso crescerebbe al punto che viene oggi definita una vera e propria 'holding' finanziaria, in grado di movimentare cocaina dal sud America per tonnellate, grazie anche al supporto delle cosche reggine, espropriando della titolarita' del traffico internazionale anche Cosa nostra. Ci sarebbe anche il riciclaggio del denaro: i soldi ottenuti con il traffico degli stupefacenti tornano in Argentina e poi girano su banche e uffici di exchange in Svizzera e Medio Oriente, ritornando, puliti alle basi tra cui appunto la Lombardia (Milano, ma anche Brescia), il Piemonte, l' Emilia Romagna. Negli anni, pero', alla cosca dei Mancuso sono stati inferti, da parte della magistratura e delle forze di polizia, anche duri colpi, come ad esempio l'operazione Dinasty, compiuta nell'ottobre del 2003, che porto' all'arresto di decine di affiliati. Da quell'inchiesta era emerso come la cosca era da tempo scossa dalle divisioni interne e dai contrasti tra i capi delle diverse fazioni, con il rischio di perdere definitivamente forza e influenza.
Dall'inchiesta di tre anni fa la cosca sembrava che la cosca ne fosse uscita di fatto decimata poiche' furono arrestati tutti i componenti maschi della famiglia Mancuso, eredi di una antica tradizione criminale. Altri tempi, in sostanza, rispetto a quelli in cui a curare gli affari della cosca, con l' autorevolezza e la capacita' necessarie, era Francesco Mancuso, detto Ciccio, un vero e proprio patriarca della 'ndrangheta, capace di trattare ad armi pari e senza alcun timore reverenziale con gli altri esponenti di spicco della stessa organizzazione criminale calabrese (i Piromalli di Gioia Tauro, i De Stefano di Reggio Calabria, gli Arena di Isola Capo Rizzuto) e con i boss di Cosa nostra.
Mancuso e' morto per un male incurabile, nella sua casa di Limbadi, nel 1997. In una delle conversazioni telefoniche intercettate dagli investigatori nell'ambito dell'inchiesta Dinasty due degli affiliati ricordavano con nostalgia e rammarico proprio i tempi in cui a dirigere gli affari della cosca era Ciccio Mancuso, dotato di un' autorita' che nessuno osava mettere in discussione. Ma al di la' della cosca quello che emerse nell'indagine di tre anni fa era la vera e propria dinastia dei Mancuso, il cui capostipite, nato nel 1902, aveva avuto undici figli. L'inchiesta consenti' di scoprire che la cosca Mancuso, di fatto, si era pero' frantumata negli ultimi anni dividendosi in tre gruppi contrapposti capeggiati, rispettivamente, da Luigi e Giuseppe Mancuso, entrambi in carcere per scontare in regime di 41 bis una condanna all' ergastolo, e Francesco Mancuso. Nonostante i contrasti interni alla famiglia, le attivita' sarebbero comunque continuate in modo incessante e lo dimostrerebbero le recenti operazioni compiute dalle forze di polizia nel nord dell'Italia che hanno smantellato diversi traffici internazionali di droga gestiti dalle cosche della 'ndrangheta.
A Napoli ha vinto la camorra
di Giorgio Bocca
La violenza dilaga. Il sistema criminale impera. I cittadini non si ribellano. E sembra ormai quasi scontato accettare la sconfitta dello Stato. Con dolore e pietà
Mi scrive un lettore napoletano che si firma Giovanni Aiello: "Napoli la grande città che dovrebbe ribellarsi alla occupazione camorrista in larga parte costituita da 'napulegni' ovvero da cittadini impigliati nel vizio delle forze delinquenziali. Napoli insomma dovrebbe ribellarsi contro se stessa e questo è francamente impensabile. I potenziali ribelli, i 'napoletani buoni' come li chiama lei, sono davvero pochissimi. Le persone non affiliate, non colluse, non direttamente complici, non economicamente dipendenti, non simpatizzanti o anche non culturalmente contaminate, si contano ormai secondo una mia personale stima nell'ordine delle decine di migliaia. A fronte invece di un esercito fatto di arroganti, insolenti, ignoranti, ipocriti, presuntuosi e sempre più spesso violenti.
Insomma non è che non si voglia ma sono proprio troppi per combatterli. Il tessuto culturale di base è fatto da una trama simile a quella camorristica. E ci se ne accorge semplicemente entrando nei negozi, negli uffici, guidando la macchina o facendo lo slalom fra le merde di cane nelle strade più belle della città.
A Napoli 'l'altro' è quasi sempre percepito come un intralcio, come un ostacolo alla propria presunta libertà. Tutti si odiano e ciascuno si crede vittima di tutti gli altri. Inoltre questa mentalità è assolutamente trasversale, riguarda i più umili come i più istruiti e si ripropone in tutti gli ambienti, partendo dal profondo e poi ricadendo a cascata sulla città, come una fontana o come farebbe un vulcano. È forse per questo che anche le immondezze che arredano le strade non ci fanno un grande effetto perché Napoli è una città normalmente sudicia e trasandata.
In definitiva io credo che almeno per ora la criminalità abbia vinto. E non perché ci abbia sopraffatto, ma perché noi esprimiamo questo, siamo così. Ma le domando: perché tutti si accaniscono con la mia città? Fa schifo è vero, siamo in cima alle peggiori classifiche, ma lezioni e consigli della Milano dei berluschini e della Roma dei ladroni non ne possiamo accettare. Nessuno mi pare che in Italia abbia ormai il titolo per aprire bocca su nessun altro. Perché Napoli non è un'isola. Siamo tutti in parte corresponsabili dello stesso paese abbandonato".
Ma questo Giovanni Aiello non sarà per caso un mio nom de plume, non sono io che ho intitolato il mio saggio 'Napoli siamo noi'? Dicono che occuparsi della tragedia urbana di Napoli sia opera impossibile. Questa impossibilità sta dietro al rifiut o di molti napoletani di accettare le critiche dei foresti. "Non so cosa sia Napoli dopo cinquemila anni che ci vivo", scrive Rea e ha ragione ma i morti e le immondezze per la strada non può non vederle anche lui. Chi si occupa di questa meravigliosa e orrida città non può separare una cosa dall'altra, non può indagare i misteri e gli accumuli della storia (a Napoli, ha scritto Benedetto Croce, dobbiamo ancora rimuovere le macerie del Duecento) e ignorare i mali assurdi del presente: la città coperta di lordure, gli assassinati per i più futili motivi, le regole del 'sistema' che continua a produrre miseria e la sordida ricchezza dei violenti. Non c'è altro da fare, si direbbe, che accettare questa fine del mondo sempre rinviata, questa anarchia sempre in qualche modo tenuta assieme dalla natura si direbbe più che dagli uomini.
Con dolore e pietà più che con rassegnazione.
Da Scampia si vede Pechino
di Roberto Saviano
I boss camorristi hanno scoperto la Cina prima di tutti. E creato ambasciate e società miste. Che dal porto di Napoli invadono di merci l'Europa
E si racconta che i cinesi sono i napoletani d'Oriente. Nel gioco delle similitudini impossibili o persino dei modelli folkloristici esportati. E pare sia proprio così: la convivialità, la socievolezza, la simpatia d'impatto. Sembrano le stesse. Un'immagine che elimina gran parte dei pregiudizi, anche in una terra dove basta avere gli occhi leggermente a mandorla per essere definito 'o' cinese'. Eppure la diffidenza della comunità cinese sul territorio napoletano è enorme. Una comunità silenziosa, ma che è capace di creare un quasi invisibile impero, molto più invisibile che a Prato piuttosto che a Roma o nel dedalo milanese di via Paolo Sarpi. Quelle sono le Chinatown che si lasciano vedere, ma è a Napoli che si trova il cuore dell'impero.
Il primo rapporto tra una certa economia cinese e l'Occidente non sono i patti, non sono le cene, non sono neanche i contatti diplomatici. Sono i porti a fare il legame. Non è un caso se i colossi del settore dai grattacieli di Hong Kong adesso vogliono fare compere da noi: sognano di mettere le mani sui moli di Gioia Tauro, di Palermo o di Augusta. Ma Napoli è stato il primo porto a diventare completamente cinese, una vera e propria colonia economica, colonia di investimento ovviamente perché di cittadini cinesi non se ne vedono molti.
Il risultato è che non v'è prodotto che non passa per il porto di Napoli: è il punto finale dei viaggi delle merci cinesi, vere o false, originali o tarocche. Il solo porto di Napoli movimenta il 20 per cento del valore dell'import tessile dalla Cina. Ma bisogna fare attenzione ai dati: perché in realtà oltre il 70 per cento della quantità del prodotto passa di qui. È una stranezza complicata da comprendere, ma le merci nel porto di Napoli riescono a essere non essendoci, ad arrivare pur non giungendo mai, a essere costose al cliente pur essendo scadenti. Basta un tratto di penna sulla bolletta d'accompagnamento per abbattere i costi e l'Iva radicalmente.
La merce deve arrivare nelle mani del compratore subito, presto, prima che il tempo possa iniziare, il tempo che potrebbe ospitare un controllo. Quintali di merce si muovono come fossero un pacco contrassegno che viene recapitato a mano dal postino a domicilio. È come se nel porto di Napoli si aprissero dimensioni temporali inesistenti, nei suoi 1.336.000 metri quadrati per 11,5 chilometri il tempo ha dilatazioni uniche.
Proprio in questi pontili opera il più grande armatore di Stato cinese, la Cosco, che possiede la terza flotta più grande al mondo e ha preso in gestione il più grande terminal per container, consorziandosi con la Msc, che possiede la seconda flotta più grande al mondo con sede a Ginevra. Svizzeri e cinesi si sono consorziati e a Napoli hanno deciso di investire la parte maggiore dei loro affari. Qui dispongono di oltre 950 metri di banchina, 130 mila metri quadri di terminal container e 30 mila metri quadri esterni, assorbendo la quasi totalità del traffico in transito nel centro campano. A Napoli ormai si scarica quasi esclusivamente merce proveniente dalla Cina: 1 milione 600 mila tonnellate. Quella registrata. Perché almeno un altro milione passa senza lasciare traccia.
Nel solo porto campano, il 60 per cento della merce sfugge al controllo della dogana, il 20 per cento delle bollette non viene controllato e vi sono 50 mila contraffazioni di documenti: il 99 per cento dei materiali che si infilano in questo buco nero è di provenienza cinese e si calcolano, con riferimento soltanto a questa dogana, 200 milioni di euro di tasse evase a semestre.
Il trucco con cui entra la merce non è complicato, e basta passeggiare qualche settimana la mattina presto tra i container che vengono svuotati o a volte controllati per comprenderne il congegno. Tutto arriva e parte con gli Iso ossia i container. Iso sta per International Organization for Standardization: ogni Iso è regolarmente numerato e registrato con una formula: quattro lettere (delle quali le prime tre corrispondono alla sigla della compagnia proprietaria) - sette numeri - un numero finale. Spesso però ci sono Iso con la stessa identica numerazione. Così un container già ispezionato battezza tutti i suoi omonimi illegali. Semplice, efficacissimo, milionario.
Poteva sfuggire un'occasione del genere ai signori della camorra imprenditrice? Loro hanno tutto, e ben prima dei politici italiani e di Confindustria che si affaticano per rincorrere il mercato cinese. Senza sapere che il clan Di Lauro li ha preceduti, li ha distanziati di brutto: i padroni di Secondigliano e guerrieri di Scampia sono stati i primi.
Tutto cominciò con uno scatto. Importarono macchine fotografiche, videocamere. Lo fecero dieci anni prima che Confindustria spingesse gli imprenditori italiani ad andare laggiù. Un rapporto della Direzione antimafia campana mette insieme tutte le facce di questo affare e i nuovi Marco Polo partiti dalla periferia vesuviana. Con basi piantate pure a Taiwan dove Pietro Licciardi, detto 'l'imperatore romano', aveva aperto un negozio con giacche di alta sartoria.
La dialettica dei clan ha avuto questo vettore da subito. Nelle fabbriche cinesi si produceva per conto delle migliori marche del mondo, bisognava saper approfittare dei loro indotti, e sfruttarli a proprio vantaggio. Un'industria che produce per sei mesi un tipo di macchina fotografica, può fabbricarla per altri sei mesi. Ma non può farlo per lo stesso marchio. Può produrre il medesimo modello, con l'identica qualità tecnologica mettendoci sopra un logo differente. E su questo meccanismo entrano in gioco i clan. Contini, Licciardi e Di Lauro. Le famiglie secondiglianesi. Ricche grazie alla droga e agli investimenti nel tessile, nel turismo e nell'edilizia. Potenti grazie alle batterie di killer ragazzini e di ancor più giovani vedette. Rapide come imprenditori del mercato globale.
Così la Cina è divenuto un serbatoio di produzione per i camorristi molto prima che per gli industriali italiani. Tutto a partire da quelle macchine fotografiche digitali che hanno 'monopolizzato', secondo le ricostruzioni dei magistrati, il mercato dell'Europa Orientale: la famosa Canon Matic, fatta produrre in Cina direttamente dai Di Lauro che ne gestiscono anche l'importazione.
Poi sulla stessa rotta e con lo stesso sistema sono arrivati televisori giganti al plasma, telefonini, scarpe da ginnastica e pantaloni griffati. Sovrapprodotti dalle catene di montaggio asiatiche che li realizzano per i grandi marchi, fatti arrivare a Napoli e smaltiti in tutto l'Est della nuova Europa.
Forse ad agevolare la scoperta della Cina è stata anche la predilezione della camorra per le economie del socialismo reale. I clan legati al boss Bardellino e poi i secondiglianesi furono i primi gruppi criminali a mettere piede nell'allora Ddr e poi in Polonia, Romania. Ma si sono fermati alla frontiera dell'Urss: il pentito Gaetano Conte ha raccontato che i mafiosi russi hanno impedito l'ingresso degli investimenti napoletani. Altra sapienza antica, la mafia russa ben sa che dove investono i camorristi poi il territorio tutto diventa roba loro.
Il triangolo cinese a Napoli si trova alle pendici del Vesuvio. Ottaviano, Terzigno, San Giuseppe. Paesi cancellati dalla lava e poi risorti più volte nella storia adesso cambiano vita per l'ennesima colata. È lì che si riversa l'imprenditoria tessile venuta dall'Asia. Tutto quello che accade nelle comunità cinesi d'Italia è accaduto prima a Terzigno. Le prime lavorazioni, le qualità di produzione crescenti, e anche i primi assassinii.
La mafia cinese è complesso definirla, configurarla. A Napoli fu uccisa la prima 'testa di serpente' individuata in Italia, Wang Dingjm, un immigrato quarantenne arrivato in auto da Roma per partecipare a una festa tra connazionali a Terzigno. Le teste di serpente sono una delle forze d'alleanza tra camorra e criminalità asiatica. Si chiamano così perché importano manodopera. Seguire una testa di serpente significa intravedere una sorta di venditore di bestiame. Vende esseri umani alle fabbriche. Fornisce a chiunque voglia, cinese o napoletano, tentare la strada dell'imprenditoria, manodopera numerosa e a basso costo. Le teste di serpente spesso però barano.
Prendono soldi per portare un numero di persone e si presentano con la metà degli uomini promessi spesso adducendo giustificazioni tra le più varie. Ma le scuse con la camorra non funzionano e le teste di serpente spesso rischiano la punizione finale quando barano. Garantiscono a imprenditori un quantitativo di persone che poi in realtà non portano. Prendono i soldi da tutti i committenti per un'ordinazione di manodopera, cento operai per ogni fabbrica; poi in realtà fanno entrare cento lavoratori da distribuire fra tutte le fabbriche. Come si uccide uno spacciatore quando ha tenuto per sé una parte del guadagno, così si uccide una testa di serpente perché ha barato sulla sua mercanzia, sugli esseri umani che smercia.
Ma non ci sono solamente schiavi. Quella è un'altra immagine che rischia di diventare passato, archeologia industriale come molti dei luoghi comuni sull'economia asiatica. Al quartiere Sanità qualche tempo fa avevo incontrato una ragazzina napoletana che si era messa a lavorare in una fabbrica cinese. Raccontò il suo nuovo mestiere dicendo: "Mi sono messa a fare la cinese". Un tempo il quartiere Sanità era il regno delle fabbriche dei guantai, raccontavano che persino i guanti della principessa Sissi erano stati prodotti in questi vicoli. E ora lentamente arrivano i cinesi, riescono a ridare energia a produzioni di qualità che in Italia sono scomparse per l'aumento del costo della manodopera sentito anche nel lavoro nero.
E per la prima volta in Italia accade la rivoluzione: cittadini italiani iniziano a lavorare per i cinesi, nelle loro fabbriche, e i cinesi stanno cercando con i loro prezzi di far decollare la qualità dei manufatti. Gli imprenditori arrivati dall'Asia cercano maestri per formare i loro artigiani goffi. Pagano meglio dei padroni di Secondigliano per rubare l'arte a quelle maestranze che nei laboratori di Arzano tagliano gli abiti di prima scelta. Capolavori dell'italian style disegnati da sarti famosi e finiti poi addosso a stelle di prima grandezza. Come quando Angelina Jolie comparve sulla passerella degli Oscar indossando un completo di raso bianco, bellissimo. Uno di quelli su misura, di quelli che gli stilisti italiani, contendendosele, offrono alle star.
Quel vestito l'aveva cucito un mastro napoletano, Pasquale, in una fabbrica in nero ad Arzano. Gli avevano detto solo: "Questo va in America". Pasquale aveva lavorato su centinaia di vestiti andati negli Usa. Si ricordava bene quel tailleur bianco. Si ricordava ancora le misure, tutte le misure. Il taglio del collo, i millimetri dei polsi. Ed era proprio Pasquale quello che serviva ai cinesi per fare il grande salto. Per diventare più bravi degli italiani. Pasquale insegnava la qualità. Lo usavano per insegnare alle sarte venute dall'Asia. Lezioni clandestine, nascosto nel cofano come un latitante. Mentre al volante c'è un Minotauro con la pistola tra le gambe, perché così si spara più in fretta. Ai camorristi non piace che i cinesi gli rubino l'arte. Mentre invece i clan si sono messi a fare i cinesi. Copiano i loro sistemi economici che danno vita a consorzi di piccole imprese, con gare al ribasso nei costi e nei tempi pur di accaparrarsi una commessa. Con vincoli aperti dal prestito a usura e cementati dalla minaccia. Con lavoranti praticamente senza diritti. È il segreto dell'oro di Las Vegas, la zona industriale nata dal nulla nella periferia nord della metropoli.
E oltre all'import i camorristi fanno l'export. Lo fanno i clan del Casertano. I feroci in grado di monopolizzare il mercato di rifiuti. Esportano spazzatura, morchie così tossiche che nemmeno i criminali vogliono averle in casa. Al porto di Napoli sono stati trovati, come segnala Legambiente nei dossier 2004 e 2005, container zeppi di rifiuti in partenza per la Cina. Materia da intombare in Cina. Un affare florido e quasi inesplorato dagli investigatori: la nuova frontiera di un business che non conosce confini né scrupoli. Ma soltanto guadagni.
La lezione di Gomorra
di Gianluca Di Feo
Dopo le minacce decisa la scorta a Roberto Saviano. Per il quale si è mobilitata tutta Italia. Ma ora bisogna colpire il sistema dei boss
Lo Stato ha fatto il primo passo: Roberto Saviano verrà protetto. Il Comitato per l'ordine e la sicurezza, guidato dal prefetto di Napoli Renato Profili, aveva aperto la procedura per la tutela armata dopo le minacce contro lo scrittore che ha sfidato i boss tre volte: con il suo libro, con i suoi articoli e con le sue parole. Ma l'eco internazionale che ha avuto l'articolo de 'L'espresso' con la descrizione delle intimidazioni ha spinto anche il ministro Giuliano Amato a intervenire in prima persona. E più della scorta, a garantire l'incolumità fisica dell'autore di 'Gomorra' provvederà il muro di solidarietà che è sorto intorno a lui. Si sono schierate al suo fianco le massime istituzioni campane, dal governatore Antonio Bassolino al cardinale Crescenzio Sepe. Si sono mobilitati tantissimi scrittori, che hanno aggiunto le loro parole all'appello lanciato da Sandrone Dazieri con le firme di Massimo Carlotto e Giancarlo De Cataldo. Umberto Eco in un'intervista al Tg1: "Il caso di Saviano si lega a Falcone e Borsellino. Perché in questi caso sappiamo da dove arriva la minaccia, sappiamo persino i nomi e i cognomi. Si tratta di intervenire preventivamente e pubblicamente su un fenomeno di cui si sa tutto". Ma soprattutto c'è stato un coro di sostegno a Saviano da Napoli e dagli altri centri della Campania, la sua terra: quella che lui ha raccontato nelle pagine di 'Gomorra' come vittima di un 'sistema' criminale che distrugge tutto: le persone, l'ambiente, l'economia.
Lo Stato ha fatto il primo passo. Ma adesso è necessario che vada avanti. Perché 'Gomorra' è diventato una denuncia nazionale, che mette sotto gli occhi di tutti l'inarrestabile ascesa della camorra campana e delle sue ramificazioni internazionali. Una denuncia che presto verrà tradotta e pubblicata in 20 paesi, dagli Stati Uniti alla Svezia, e che ha già conquistato le pagine dei quotidiani europei. Roberto Saviano ha scritto tutto quello che ha visto: integra con la sua testimonianza gli atti di centinaia di indagini che non sono quasi mai riuscite a raggiungere condanne definitive. O che sono state vanificate dall'indulto o da evasioni beffa, come quella del boss Lauro scomparso dopo la scarcerazione per un cavillo burocratico. 'Gomorra' ha dato voce a tutti i campani che non si arrendono allo strapotere della criminalità organizzata. Negli articoli de 'L'espresso' la sua denuncia si è allargata all'incapacità della classe politica di dare una risposta: di liberare i cittadini dalla camorra e dall'immondizia, il nuovo oro nero delle mafie. Poi, al fianco del presidente della Camera Fausto Bertinotti, nella piazza di Casal di Principe, la città che negli Novanta aveva il record mondiale di omicidi, si è rivolto direttamente ai padrini, invitandoli ad andarsene. Ecco quale deve essere il secondo passo. Partire da Casal di Principe e dal Casertano, nuovo polmone di capitali finanziari delle cosche che marciano su Roma. E da Secondigliano, periferia disumana diventata centro di traffici mondiali.
Inferno napoletano
di Roberto Saviano
Violenza nelle strade. Ragazzini che sognano di diventare killer. Boss che si fanno imprenditori. Coca a ogni angolo. Rifiuti ovunque. E la politica non ha risposte per una città senza più speranza
Era uno degli ultimi a essere sfuggito. Ne restavano soltanto due. Il penultimo era lui, Modestino Bosco, 35 anni, e l'hanno massacrato in un garage sabato 2 settembre. Il clan Licciardi l'aveva condannato a morte molto tempo fa. L'aveva inserito nella famosa 'lista della Resurrezione'. Una lista di nomi scritta e affissa fuori la chiesa della Resurrezione a Secondigliano. I nomi erano dei presunti responsabili - secondo il clan - della morte del nipote di Gennaro Licciardi 'a'scigna', Vincenzo Esposito ucciso nel 1997 a 21 anni al rione Monterosa. Esposito lo chiamavano 'il principino' per il suo essere nipote dei sovrani di Secondigliano. Era andato in moto a chiedere spiegazione di una violenza subìta da alcuni suoi amici. Indossava il casco e venne scambiato per un killer. Quando se ne accorsero gli esecutori avrebbero voluto uccidersi con le loro mani, siccome intuirono che sarebbe stata cosa migliore che aspettare la ferocia dei Licciardi. E i Licciardi fecero partire una mattanza che in pochi giorni uccise 14 persone, a vario titolo coinvolte nell'omicidio del loro giovane erede. Fu così che nacque l'idea di affiggere una lista fuori la chiesa, una lista che il parroco subito strappò, ma non così in fretta da non far leggere i nomi a tutti. Un modo per marchiare a fuoco i responsabili, per velocizzare l'eliminazione senza dover iniziare la strategia delle mattanze trasversali, un invito a consegnarsi per salvare i familiari, un invito ai familiari a consegnare il loro 'morto viven -te'. E dopo lunghi anni, la memoria dei clan è ferrea e infallibile, Modestino Bosco ha pagato la sua condanna. Non è stato uno degli ultimi a morire. Infatti pochi giorni dopo è stato ucciso Bruno Mancini, pregiudicato vicino al clan Di Lauro, crivellato di colpi di 9x21, la pistola il cui calcio da queste parti si abbina con il colore della cintura. Poche ore dopo, un altro agguato: Alfonso Pezzella, 56 anni, è stato assassinato nella sezione dei Comunisti italiani di Casandrino, intitolata ad Antonio Gramsci. Pezzella era un falegname, le indagini mostrano che aveva deciso di interrompere il pagamento dei debiti d'usura. E poi l'ennesimo innocente ammazzato per una rapina: un edicolante Salvatore Buglione 51 anni, la prima sera che non si era fatto assistere dai suoi parenti durante la chiusura del chiosco è stato assalito. Lo volevano rapinare dell'incasso del giorno, l'hanno accoltellato al petto, vicino al cuore. Tre vittime soltanto in un giorno.
Eppure fino a martedì l'estate era stata fatta di scippi, condotti con violenza e tecnica creativa. Il filo di banca è la più sofisticata: si aggancia la persona allo sportello, quella che ha prelevato più soldi, si lancia l'allarme con il telefonino ai complici e la vittima viene pedinata fino a una strada tranquilla. A quel punto non servono neanche le armi: quasi sempre basta la minaccia per farsi consegnare i soldi. C'è poi il metodo del panino, le forche caudine urbane: si sfrutta la strettoia per scippare. Infine il colpo al Rolex, aggiornato nell'era di Internet: si studiano su Ebay le quotazioni degli orologi, memorizzando i più richiesti. Poi si 'squadra la situazione', cercando al polso della vittima il pezzo più pregiato. L'agguato scatta nella zona degli alberghi sul lungomare e per il Rolex si è pronti a tutto, anche a sparare. E così in un territorio che va da via Chiaia a piazza Garibaldi passando per via Caracciolo e i Decumani solo nei mesi di luglio e agosto sono stati denunciati 756 scippi e rapine: più di 12 al giorno.
Quello che sembra essere una costante di Napoli e delle letture che si fanno del territorio partenopeo è che il male è tutto il male possibile ed il bene è tutto il bene possibile. È complesso riuscire a isolare i vettori delle contraddizioni, riuscire a comprendere sino in fondo le dinamiche, capirne i perimetri, valutare le tragedie. Napoli sembra sprofondare ed ogni qual volta si è certi di aver raggiunto una sorta di abisso che non può celare sotto che altro abisso, si continua invece a scendere. Come se il limite non si raggiungesse mai. Le estati sono momenti di impennata: turisti, vacanzieri, la vita per strada, divengono portatori di oggetti e danari troppo succulenti per non essere considerati come capitale mobile, danaro frusciante che ti passa sotto il naso, come se avessero sotto le t-shirt e i top il colore verde del dollaro o dei 500 euro. Poi, dopo, si alternano mazzi di fiori inviati ai turisti pestati, inviti a rimanere nelle splendide terre della Magna Grecia e poi lettere ai giornali di chi abbandona Napoli perché esausto. E di chi resiste. E turisti che dicono di non aver mai avuto tanta paura come in questa città, come l'americano Thomas Matthew Godfrey che ha reagito a uno scippo in vico dei Maiorani qualche settimana fa e si è trovato addosso una carica di persone, corse a sostenere i criminali che lui era riuscito a bloccare.
Il percorso non sembra essere mutato dal 1996 quando il leggendario 'Pippotto', ragazzino di Secondigliano chiamato da tutti ''o terrore', appena quattordicenne riusciva a fare decine di rapine in un'ora e cercava di migliorare le sue capacità tirando coca. La coca che a Napoli ha raggiunto prezzi bassissimi, arriva anche a 10 euro a dose al Rione dei Fiori nell'area nord della città, è il carburante migliore per mantenere un elevato grado di efficienza al furto, in grado di non farti sentire la stanchezza, di fare su e giù per le strade e di non perdere l'attenzione per 'squadrarsi la situazione'. Qualche giorno fa un ragazzo di vent'anni in un'ora ha scippato quattro donne, tra cui una disabile. La sua giornata è iniziata alle otto di mattina sul lungomare poi Porta Capuana e il Centro direzionale. Lo scippatore - incensurato, padre operaio in una delle tante fabbriche di scarpe nei sottoscala di via Foria - lavorava come garzone di barbiere: arrestarlo è stato facile, perché per i suoi colpi usava l'automobile. Il segno di un'inventiva criminale che studia sempre nuove tecniche: le armi, per esempio, non si usano più. Per rapinare bastano schiaffi e pugni. I Rolex sono il pezzo più ghiotto in assoluto: non ci sono statistiche, ma a leggere solo le denunce fatte in Questura a Napoli ne sono stati rubati negli ultimi anni più di 50 mila, e la cifra dicono gli inquirenti è sicuramente per difetto. Non solo a Napoli, ma furti di Rolex gestiti da napoletani sono stati segnalati nel 2006 a Genova, Riccione, Roma. Ovunque il mercato dei Rolex è gestito da qui siccome - come ha dimostrato l'inchiesta del 2006 al Monte di Pietà - i clan napoletani, soprattutto quelli del centro storico riescono a immettere i Rolex nuovamente nel circuito nazionale e internazionale di vendita. Un orologio rubato dopo una settimana ha una garanzia nuova, un codice nuovo ed è già su un polso nuovo.
Alla camorra non interessa mettere a stipendio l'intera massa che preme per entrare nel mercato imprenditorial-criminale. Quello che era stato il progetto degli anni '80 della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo di creare una sorta di 'Fiat della malavita', farebbe ridere i boss dei clan di oggi. Nonostante ciò, la camorra continua ad essere per numero di affiliati l'organizzazione criminale più corposa d'Europa, a leggere i dati forniti dalla Procura antimafia di Napoli. Per ogni affiliato siciliano ce ne sono cinque campani, per ogni 'sacrista' pugliese quattro, per ogni 'ndranghetista addirittura otto. In Campania c'è anche il territorio con il più alto tasso di camorristi rispetto alla densità abitativa, tra Casal di Principe, Casapesenna e San Cipriano d'Aversa, comuni del Casertano con meno di 100 mila abitanti, ci sono 1.200 condannati per 416 bis e un numero esponenziale di indagati per concorso esterno in associazione mafiosa. I rapper cantano 'Napoli è cocente di 416 bis' e il reato di associazione mafiosa diventa un inno, un'aspirazione. Perché l'aumento della pressione microcriminale sulla città trova ragione innanzitutto dal calo dei criminali 'a libro paga' e dalla progressiva ristrutturazione dei cartelli. Che è come se avessero svincolato gli uomini, autorizzandoli di conseguenza a scippare e razziare in ogni zona di Napoli. Spingendoli a osare di più, perché entrare a pieno titolo in un clan è spesso complicatissimo. E tentare di crearne uno è una prova cui molti vogliono sottoporsi.
La flessibilità della camorra è la risposta alla necessità delle imprese di far muovere capitale, di fondare e disfare società, di far circolare danaro e di investire con agilità in immobili senza l'eccessivo peso della scelta territoriale o della mediazione politica. Ora i clan non hanno necessità di costituirsi in macrocorpi, un gruppo di persone quindi può decidere di unirsi in banda, rapinare, sfondare vetrine con gli arieti, rubare beni e rimetterli nel mercato, senza subire come in passato o il massacro o l'inglobamento nel clan. Le bande che scorrazzano per Napoli non sono composte esclusivamente da individui che fanno crimine per aumentare il volume della propria tasca, per arrivare a comprare l'auto di lusso o riuscire a vivere comodamente. Gli individui che scelgono di far rapine, aggressioni, furti, sono spesso coscienti che aumentando le proprie azioni, riunendosi, possono migliorare la propria capacità economica, divenendo interlocutori dei clan o loro indotti. La rapina, l'aggressione, il furto, sono i primi scalini che servono per diventare imprenditore. Iniziare a mettere su un capitale è un percorso di crescita, non un gesto disperato. A Napoli la ferocia è un valore aggiunto. Già qualcuno, molti anni fa, disse che in una città dove il valore della vita è pari a zero chiunque una mattina può svegliarsi e decidere di mettere su un gruppo che se gli va bene potrà diventare clan, se gli va male finirà nella disperazione delle rapine. Il tessuto della città si slabbra, sino a spaccarsi tra due diverse tendenze gli individui, le bande, che come parassiti si nutrono di questa violenza allargata dove ogni essere vivente è territorio da saccheggiare, e di clan che invece come avanguardie velocissime spingono il proprio business verso il massimo grado di sviluppo e commercio, tra queste due cinetiche la città si sta dilaniando.
La mattanza di Scampia ha generato un'attenzione che mancava dalle dinamiche di camorra da più di dieci anni. Si torna a parlare del vecchio modello delle due Napoli. Una marcia, putrida e criminale; l'altra dotta, saggia, colta e visibilmente oscurata dalla mala-Napoli. Le due Napoli tornano visibili. La Napoli borghese, che non disdegna di parlare il dialetto con sonorità antiche, la Napoli che si considera capitale di bellezza e capacità di vita, e dall'altra la Napoli dei neomelodici, di Tommy Riccio e delle radio che trasmettono i messaggi di auguri ai carcerati di Poggioreale. La Napoli alta vede il crimine, la feccia del narcotraffico, l'arroganza del pizzo come degenerazioni della Napoli bassa, come un sacco velenoso che essa è costretta ingiustamente a trascinare.
Ma questi poli opposti, queste radicalità hanno perimetri ambigui. In realtà ben più di un nodo lega quest'apparente distanza. Il fulcro dell'economia della camorra è la sua forza imprenditoriale, una forza che si innesta anche nell'economia del nord Italia, irradiandosi in Asia, America e tutta Europa. Si combatte nelle strade di periferia e i soldati, come in ogni guerra, sono i disperati che ammazzano con un indennizzo di 2.500 euro a omicidio, che prendono salari di 700 euro mensili e che sperano di arrivare agli stipendi dei 'dirigenti militari', quelli che possono intascarsi anche 20 mila euro a settimana. Le economie in palio sono astronomiche: quella dei Di Lauro supera i 500 mila euro al giorno e, secondo quanto dichiarato nel settembre scorso nella commissione parlamentare Antimafia, il clan dei Casalesi gestirebbe un patrimonio di 30 miliardi, inclusi i beni posti sotto sequestro ma ancora nelle loro disponibilità. E le loro economie possiedono i perimetri dei continenti, si muovono con i money transfer in Canada, Australia, Gran Bretagna, Svizzera, investendo in aziende, negozi, ristoranti, alberghi. I dirigenti di queste economie hanno i profili dei finanzieri, degli imprenditori internazionali, non hanno la foggia dei criminali di periferia, risiedono nelle città europee, a Tenerife, Monaco, Varsavia, viaggiano da Pechino a Bogotà e investono negli Usa, Germania, Francia. Sono uomini di mondo, che con i soldi di camorra conquistano il mondo.
Sanno di correre dei rischi. Ma sanno anche fiutare le scorciatoie. L'indulto è venuto in soccorso delle disperate condizioni di vita a Poggioreale: un carcere d'inferno, il più sovraffollato d'Europa, dove d'estate nelle celle si arriva a 45 gradi e vivono in 2.300 nello spazio che dovrebbe contenere al massimo 1.100 persone. Ma non ha avuto solo questo compito. L'indulto sembrava avere una sola certezza: nessuna concessione per chi stava scontando pena per mafia. Eppure anche il 416bis è stato risolvibile a Napoli. E il meccanismo è semplice. Un meccanismo salva-padrini. Così è accaduto a Giovanni Aprea, boss di San Giovanni a Teduccio, uno dei territori con maggiore presenza camorristica, ma contrastata da molti cittadini di quest'area a forte tradizione operaia.
I legali di Aprea hanno smontato la condanna: prima hanno proceduto con lo scorporo delle due pene che il boss stava scontando: associazione mafiosa e possesso illegale d'arma da fuoco. Poi è arrivata la richiesta di far scattare l'indulto per la pena relativa al possesso d'arma da fuoco. Una volta accettata questa richiesta, il suo avvocato ha chiesto l'applicazione della fungibilità, ossia di scalare dal periodo trascorso in prigione che era stato condonato la condanna relativa all'associazione di stampo mafioso. Come dire si è usato l'indulto sul reato dove era possibile applicarlo per arrivare a ottenere l'indulto anche sul reato che era escluso dalla clemenza. E il boss Giovanni Aprea, soprannominato 'Punt' e curtiell' non per qualche sua abilità con le lame, ma perché suo nonno interpretò la figura del maestro di serramanico nel film di Squitieri 'I Guappi', torna libero. Libero di seguire i suoi affari in un territorio dove la crescita edilizia ha il profilo delle ditte dei clan.
Già prima dell'indulto i boss sono riusciti a risolvere i loro problemi con la giustizia. Pure i protagonisti della guerra di Scampia ce l'hanno fatta: è bastato cancellare 15 righe per fare svanire 80 morti, 80 cadaveri crivellati che hanno fatto inorridire il capo dello Stato e il papa. Vincenzo Di Lauro, figlio del re di Scampia Paolo, arrestato nell'aprile 2004 a Chivasso dopo anni di ricerche, è tornato libero nel giugno scorso per 15 righe e 30 minuti. Quindici righe mancanti nell'ordinanza di custodia cautelare, 30 minuti di ritardo nell'intervento dei carabinieri. Una svista, dicono. Proprio quelle 15 righe sui "gravi indizi di colpevolezza" che servono a tracciare il ritratto criminale di una persona che finisce in manette. Tanto è bastato. E i suoi uomini sapevano, sapevano prima dello Stato della sua uscita. Per avvertirlo e festeggiarlo gli avevano inviato un paio di scarpe, quelle della marca che ha un coltello come simbolo. Vincenzo è sparito in 30 minuti, il tempo necessario ai carabinieri per circondare il carcere e far partire il pedinamento. Prima del giovane Di Lauro era tornato libero Raffaele Amato, boss dei cosiddetti spagnoli, ossia gli scissionisti che a Barcellona hanno creato un secondo impero, rilasciato per decorrenza termini. E Giacomo Migliaccio era stato scarcerato per motivi di salute. Sono considerati due pesi massimi del narcotraffico europeo. Amato è già entrato nella leggenda nera, perché si è arricchito unendo 'munnezza' e droga: trasportava i carichi di cocaina nascosti dentro i camion della spazzatura, lì dove nessun doganiere avrebbe messo le mani. Queste scarcerazioni sono dati fondamentali anche per i ragazzi di camorra: i nuovi affiliati, tutti sotto i 16 anni, vedono che in fondo i capi più scaltri ce la fanno. Comprendono che innescare una guerra di camorra con più di 80 morti, che trasformare la più grande periferia del Mediterraneo, com'è Secondigliano, nella piazza di spaccio più importante d'Europa, tutto sommato ti permette di raggiungere un potere in grado di difenderti persino dal carcere. E di fare tanti soldi.
Quei capitali vanno da Napoli al Nord e poi nel resto del mondo, mentre la spazzatura segue la direttrice opposta. È per questo che il problema rifiuti non è un problema campano e meridionale. Le inchieste provano che in oltre trent'anni centinaia di imprese settentrionali hanno sversato le loro morchie, le parti non metalliche delle auto, i toner delle stampanti, migliaia di altri veleni, avvalendosi delle imprese della camorra e risparmiando in maniera esponenziale sui costi di smaltimento legale. Intere colline sono spuntate dove c'erano pianure e sopra le colline si è pure cominciato a costruire case e villette.
Dopo dieci anni di incapacità a gestire la questione rifiuti, dopo il commissariamento che quotidianamente ricorda l'incapacità campana di esprimere un politico, un dirigente, in grado di coordinare la questioni rifiuti senza essere condizionati dalla camorra. Dopo tutto questo, sembra incredibile ancora raccontarsi l'ingenua fiaba che vede la 'munnezza' un problema napoletano di disorganizzazione e burocrazia marcia. Attraverso il gioco dei rifiuti si è foggiata una classe imprenditoriale fiorente che ha innestato rapporti con la grande industria nazionale e ora è proprio questa forza economica che dopo aver fatto marcire la terra, l'aria, e molti esseri umani di queste zone, impedisce una reale soluzione. Poiché fin quando la situazione rimarrà così insolvibile ed incomprensibile la camorra potrà continuare a intombare i rifiuti d'ogni parte d'Italia in Campania, e continuerà a mischiare i 'propri' rifiuti con l'incredibile silenzio della politica, silenzio che ha il sapore sempre più del consenso.
Le leggi speciali chieste per Napoli sembrano essere quasi un palliativo. La situazione è speciale perché Napoli è una ferita che non riguarda solo Napoli. Nessuno può più affermare: 'Non mi riguarda'. Da qui si innescano economie e contraddizioni che irrorano il resto del paese: dai capitali criminali che altrove diventano legali, sino ai rifiuti che le imprese del Nord hanno sepolto nelle terre campane. Queste guerre di camorra, questa peste dei rifiuti che una parte d'Italia non riconosce come proprie, che ritiene un cancro inestirpabile di un organo che non appartiene al suo corpo, sono in realtà sismi le cui onde si stanno espandendo ovunque.
La Napoli che ha fallito il suo rinascimento, credendo di risolvere problemi antichi battezzando un luogo come autentico e sconsacrando le parti di esso in cui non si riconosceva, questa parte della città, progressista e insieme tremendamente conservatrice, continua ancora a rappresentarsi come ciò che non è, nostalgica di qualcosa che non è mai avvenuto, di una vaga leggerezza offesa dal peccato originale della violenza criminale. Ma occulta colpevolmente a se stessa che l'economia dei clan, composta dai soldati della periferia, ma in grado di versare capitale in ogni territorio europeo, è la cinetica prima della ricchezza di cui gode e del potere che detiene. Ipocrita, quindi, questa distante disperazione di una Napoli che adora sentirsi ferita a morte, ma che in realtà non muore mai.
Giustizia chiusa per paralisi
di Marco Del Gaudio, sostituto procuratore dell'Antimafia
Mancano mezzi, uomini, strutture. Se anche il giro di vite annunciato avesse effetto, la Procura non potrebbe fronteggiare arresti e processi. Parola di pm in trincea
Lo stato di emergenza a Napoli pare abbia prodotto una dichiarazione di intenti sul rafforzamento di alcune strutture di polizia giudiziaria. Forse, per moralizzare l'intera faccenda, val la pena di sottolineare che, se gli interventi promessi saranno realizzati, non si tratterà comunque della realizzazione di un impegno aggiuntivo e speciale per Napoli, ma solo di un tentativo di (parziale) adeguamento alla media nazionale. Con i ritocchi promessi, insomma, si avvicinerà, per esempio, la percentuale di carabinieri per abitante di Napoli a quella delle altre città, senza tuttavia raggiungerla. Ma tutti sanno che è un po' difficile essere scippati a Teramo, Forlì o Trento e che, in quelle zone, non vi sono molti morti ammazzati per strada. E prepariamoci al peggio. Eh sì, al peggio.
Ammettiamo, per un momento, che le forze di polizia, numericamente ricondotte a una percentuale più vicina agli standard nazionali, produrranno più attività d'indagine e che esse siano realizzate con modalità tali da renderle 'processualizzabili'. Fingiamo per un istante, insomma, che i nuovi mezzi funzioneranno. Sarebbe un disastro.
Se le nuove risorse funzioneranno, va considerato che la Procura di Napoli è allo stremo, quanto a risorse finanziarie e umane. Non parlo dei magistrati, almeno non in prima battuta. Le risorse economiche per il funzionamento degli Uffici sono già ultimate da tempo, e non è affatto una nuova notizia. Manca tutto: automobili, benzina, commessi che portino i fascicoli, carta, toner, cassette per registrare gli interrogatori dei collaboratori di giustizia, computer portatili per i magistrati: tutto.
Le auto blindate per i magistrati dell'Antimafia hanno in media 250 mila chilometri di percorrenza e - la maggior parte - risalgono al 1992. Ragione per cui, com'è facile comprendere, "fanno il 5 al litro". Per fortuna la benzina manca, altrimenti sai che spesa.
Se debbo interrogare qualcuno in carcere, bisogna augurarsi che funzioni il pc della struttura che mi ospita, altrimenti si verbalizza a mano. Ma il punto è che (lo dice la legge) non si può interrogare un detenuto senza registrare e, purtroppo, non ci sono le cassette.
Ma pochi parlano del personale amministrativo.
La carenza di organico, in Procura, è vicina al 30 per cento e si tratta di un personale con un elevatissimo tasso di mobilità e di assenza dall'ufficio: ogni giorno manca un 40 per cento del personale (o forse più). Chi ha fatto il pm sa che la mancanza del personale di cancelleria equivale alla paralisi. Le indagini camminano con le gambe dei cancellieri e dei commessi, sicché carabinieri e polizia possono arrestare chi vogliono, ma se manca una fotocopia (e chi legge i giornali sa che è accaduto), bisogna scarcerare anche il più pericoloso dei criminali.
Ma, se anche la Procura fosse rianimata da qualche insospettabile bombola di ossigeno, credo che la situazione non migliorerebbe affatto. Solo a titolo esemplificativo, mi risulta che il numero delle procedure del Tribunale per Riesame di Napoli è di molte volte maggiore di quello di Roma o Milano.
Ma forse, in tema di 'mezzi' per affrontare la criminalità, dovremmo pensare di più all'unico strumento davvero democratico ed efficace: il processo e la condanna. Forse non tutti sanno che la legge prevede che il contrasto di polizia, nel caso più fortunato, ossia che vi siano elementi per l'arresto in flagranza, dura al massimo 48 ore. Dopo di che, se non inizia un procedimento giudiziario con tutte le garanzie, tutti devono essere liberati. Insomma l'iniziativa della Polizia, da sola (e sottolineo da sola), ' vale 48 ore'. Dico io per fortuna. Ma, allora, quando si mette al lavoro la polizia, bisogna cercare di prevedere che fine farà quel lavoro.
Anche qui, qualche dato. In genere, l'ipotesi accusatoria nei confronti di un soggetto arrestato, prima di ottenere una stabilità, subisce almeno otto gradi di giudizio, se si eccettuano quelli di rinvio per i possibili annullamenti della Cassazione. In sintesi, ipotizzando che vengano impegnati non più di cinque rappresentanti del pubblico ministero, allora saranno necessari in tutto all'incirca 30 magistrati, che debbono lavorare a regime. Ovviamente sto parlando di un solo arresto, fatto da uno di quei nuovi mille poliziotti.
Ognuna di queste fasi (avete capito bene, ognuna) necessità di notifiche di molti atti al difensore ed all'indagato. In alcune fasi, bisogna procedere a più notifiche di avvisi quasi identici. Queste notifiche, ormai, non le può più fare la polizia, ma sono affidate unicamente agli ufficiali giudiziari. Verrebbe da dire subito: giusto! I poliziotti debbono arrestare i criminali non fare i postini. Ma tutti sanno che, almeno a Napoli, i criminali o i loro parenti picchiano anche i carabinieri e i poliziotti, perfino quando stanno procedendo agli arresti. I criminali, inoltre, sanno benissimo che una mancata notifica equivale a far saltare un processo e, talvolta, a ottenere facilmente la libertà. Pensate che offrano il caffè agli ufficiali giudiziari? Pensate che, i meno violenti tra loro, si facciano trovare a casa? Pensate che gli ufficiali giudiziari abbiano automobili, strutture o le giuste informazioni per trovare queste persone? Se avete risposto bene ad almeno due di queste domande, saprete perché a Napoli saltano molti più processi che altrove.
Rispetto a questo stato di cose l'incremento anche di un 2 per cento delle notizie di reato appare una mazzata dalla quale non ci si risolleverebbe. Basti solo pensare che, attualmente, per registrare le notizie di reato che arrivano a Napoli, si impiegano sostanzialmente quattro magistrati al giorno, tutti i giorni esclusa la domenica e che, l'anno scorso, la Procura di Napoli ha dovuto trattare e processualizzare dinanzi ad altrettanti giudici oltre 5 mila arresti in flagranza. Ai quali si devono aggiungere, ovviamente, quelli arrestati con ordinanza di custodia cautelare e quelli a piede libero .
L'associazione nazionale magistrati ha, dunque, un compito ingrato e poco simpatico. Inaugurare una nuova campagna di stampa: 'Un piano per Napoli? No, grazie'.
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Abbiamo cercato, già che
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di rinnovarlo e migliorarlo.
Ci sono ancora alcune cose
da sistemare e lo faremo
nei prossimi giorni.
Ma intanto si riparte!
Andiamo avanti.
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