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la bonifica è lontana e qualcuno
vuole anche riaprire la Discarica.
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Peter Gomez e Marco Travaglio
REGIME
Biagi, Santoro, Massimo Fini, Freccero, Luttazzi, Sabina Guzzanti, Paolo Rossi, tg, gr e giornali: storie di censure e bugie nell’Italia di Berlusconi.
Oggi, per instaurare un regime, non c’è più bisogno di una marcia su Roma né di un incendio del Reichstag, né di un golpe sul palazzo d’Inverno. Bastano i cosiddetti mezzi di comunicazione di massa: e fra di essi, sovrana e irresistibile, la televisione.
Indro Montanelli
Ai tempi della lottizzazione c’era spazio per Montanelli, Biagi, Santoro, Vespa, Fo, Grillo, Feltri, Ferrara, Lerner, Minoli e tanti altri. In tre anni (2001-2004) il governo Berlusconi ha desertificato la tv e assassinato la libera informazione. Neanche gli indici di ascolto sono graditi, anzi diventano una colpa. Questo libro racconta tutte le notizie occultate e le menzogne raccontate agli italiani. Storie grottesche, tragicomiche, incredibili e vergognose di un regime mediatico che condanna i cittadini a non sapere e a non pensare.
Postfazione di Beppe Grillo
Quando lavoravo alla Rai, ogni sabato sera, prima di andare in onda, mi chiamava il direttore generale Biagio Agnes: «Con la stima che ci lega, signor Grillo, si ricordi che lei si rivolge alle famiglie». Io regolarmente rispondevo: «Non c'è nessuna stima, signor Agnes, fra me e la sua famiglia ... ». Poi, subito dopo la sigla, avvertivo il pubblico: «Pochi minuti fa mi ha telefonato il direttore generale e ha cercato di corrompermi». La censura della Rai democristiana non era brutale e intimidatoria, violenta e ottusa come quella di oggi. Non cercava di annientarti, di rovinarti con le denunce. Era più bonaria, famigliare, melliflua. Si presentava col volto del vecchio zio burbero benefico, che ti dà buoni consigli per il tuo bene. E tu, con un po' di astuzia, la potevi aggirare. Per esempio: era vietato parlare di P2, allora io una sera andai in scena con una lavagna e fornii una complicata ma persuasiva dimostrazione matematica dell'esistenza di Pietro Longo. Alla fine usciva il suo faccione in un triangolo, il simbolo massonico. Successe un casino. Pippo Baudo si arrabattava poi a rimediare con le sue arti democristiane. Anche a lui ricordavo la differenza fra la mia famiglia e le «famiglie» delle sue parti, Catania e dintorni. Ecco, quella censura metteva alla prova la creatività del censurato, quasi lo sfidava ad aggirare l'ostacolo.
Poi arrivò Craxi e cambiò tutto. Mi tennero lontano dalla Rai per diversi anni, dal 1986 al 1993, per due battute che anticipavano Tangentopoli. In una, ammiccando allo spot che facevo per uno yogurt bussando alle porte della gente per offrire un assaggio, raccontai di aver bussato a casa Craxi. Bettino apriva e faceva per richiudere l'uscio: «No, grazie, non mangio yogurt». E io: «Ma non sono qui per quello. E’ che mi hanno fregato il motorino, e pensavo che lei ne sapesse qualcosa». Nell'altra, parlavo della mitica missione in Cina del premier socialista, che s'era portato dietro un codazzo di parenti, famigli, amici, portaborse, damazze, contesse, fidanzate. Giunto a Pechino, l'avevano avvertito: «Sa, presidente, qui siamo tutti socialisti». E lui aveva risposto: «Ma allora a chi rubate?». Poi, nel '92-'93, li portarono tutti in galera. Nel '93, dopo lunga quarantena, si rifece viva con me la Rai dei «professori»: tutte brave persone, che non capivano un tubo di televisione. Feci due serate in diretta, poi cominciarono a capire qualcosa di televisione e decisero che bastava così. Nel '94 mi richiamò la Moratti. Stessa manfrina di sempre: «Grillo, lei potrà fare e dire quello che le pare. Ha carta bianca». Conoscendo i miei polli, li misi con le spalle al muro: «Guardate, io vi mando una cassetta del mio spettacolo, e voi potete tagliare qualsiasi cosa, quello che volete». Risposero: «Ma noi non vogliamo tagliare niente». Tagliarono tutto, nel senso che la cassetta non andò mai in onda. Non era quel che dicevo, il problema. Il problema ero io, quel che rappresentavo con le mie battute e le mie denunce sulle case automobilistiche, la ricerca fasulla, i consumi, le pubblicità, i Nobel comprati, il petrolio e l'idrogeno, gli spazzolini inquinanti. Perché in Italia puoi dire peste e corna del presidente della Repubblica, ma se tocchi un formaggino ti fulminano. Dì quel che vuoi, ma non sfiorare i fatturati.
E’ così anche nell'Italia berlusconiana. Il Cavaliere mica s'incazza se si fa satira sociale, sulle pensioni, sulle riforme, sulle ville, sulla statura, sulla pelata. S'incazza se parli dei suoi processi e del suo monopolio, che poi sono le vere ragioni per cui fa politica: in una parola, i guadagni di Mediaset. Quello è il tabù. Per questo sono saltati Biagi, Santoro, Luttazzi, la Guzzanti, Fini, Rossi e tutti gli altri. Perché lo toccavano negli affetti più cari: i fatturati. E lui, quando gli toccano i fatturati, va fuori di testa. Parla di «uso criminoso della televisione», lui che la usa criminosamente da vent'anni. E così trasforma in eroi e in martiri dei professionisti che si limitavano a fare onestamente il loro mestiere di giornalisti o di artisti. Niente di rivoluzionario: solo il loro mestiere, anche se è vero che in Italia solo i veri rivoluzionari fanno ancora il loro mestiere. Ecco, lo stile è lo stesso di Craxi. Anche se Craxi non possedeva tutte le tv d'Italia: gli sarebbe piaciuto fare quel che fa oggi Berlusconi, ma non poteva. Aveva il 13% dei voti o giù di lì. All'inizio credevo anch'io che fosse uno statista. Poi capii che era un ometto. Me ne accorsi quando, con mio grande stupore, lo sentii - lui, il presidente del Consiglio - pronunciare il nome di un comico genovese: il mio. «Chi si crede di essere Grillo?», disse. Solo un ometto poteva scomodarsi per me, abbassarsi a tanto. Fosse stato intelligente, avrebbe detto: «C'è un birichino di Genova che mi prende in giro, ma io mi diverto moltissimo». E mi avrebbe ucciso per sempre. Rovinato. Invece fece di me un eroe, un martire. Da quel giorno non ebbi più fans, ma parenti. Fratelli. I grandi personaggi, anche nel male, ti fanno i complimenti in pubblico e poi te lo mettono in quel posto in privato, a tempo debito. A freddo. Sono i mediocri, gli ometti che cadono nella trappola delle epurazioni, delle censure sfacciate e brutali, addirittura preannunciate dalla Bulgaria. Sono i poveracci, che si sentono deboli e insicuri. I «grandi comunicatori» che, alla terza volta che vanno in televisione, fanno scappare la gente perché non ne può più. Lasciamoli fare, si stanno autoeliminando da soli (dopodiché bisognerà occuparsi dello smaltimento delle scorie che lasceranno ... ).
E noi, intanto? Protestiamo, certo, contro il regime mediatico. Cerchiamo di perforarlo con le notizie che nessuno dà, e che sono il miglior antidoto. Ma facciamo pure tesoro della censura per sviluppare la creatività, aguzzare l'ingegno, imparare nuovi sistemi per aggirarla. Certo, bisogna rinunciare a qualcosa per poter dire ancora quel che si vuol dire. Certo, ora che la censura s'è fatta più brutale e scientifica, aggirarla è più difficile di prima. Anche perché la censura riesce a occultare pure la censura stessa. Ed è difficile far capire alla gente che, in questa overdose di informazione, nessuno ci informa davvero. Era molto più facile nella Russia di Brezney, quando c'era solo la «Pravda» e infatti il giornale più letto era il «Washington Post»: tutti sapevano di vivere nel regime della menzogna, e tutti andavano a cercarsi le notizie vere. Oggi siamo pieni di «Pravde» e le scambiamo per tanti «Washington Post». Ci manca l'informazione, ma non lo sappiamo. Per questo, nel prossimo spettacolo, ho deciso di fare politica anch'io. Senza candidarmi. Senza dare nell'occhio. Di nascosto. L’ho fatto per tanti anni nei teatri. Ora voglio abbinare i teatri e la rete, cioè Internet. Per fare politica senza intermediari, senza politici: quelli non servono più, sono obsoleti, superflui, cadaveri ambulanti. Non rappresentano più nessuno, nemmeno se stessi. Lancio un movimento politico che, tanto per cominciare, punta a smuovere un milione di persone. A tirar fuori il furore che c’è il loro. Lo chiameremo “A furor di popolo”. Voglio un po’ vedere come potranno ignorarlo. E, soprattutto, come faranno a censurarlo.
Beppe Grillo
Peter Gomez - Marco Travaglio
L'AMICO DEGLI AMICI
È la prima volta che si dice ufficialmente che un politico è 'al servizio di Cosa Nostra'. Una sentenza talmente grave che avrebbe dovuto sconvolgere l'intero quadro politico. E quello finanziario. Avrebbe dovuto far reagire qualcuno. È successo il contrario. Molti hanno rinnovato la fiducia a Dell'Utri, a cominciare dal suo partito (Forza Italia) e dal presidente del Consiglio.
Un processo di cui si sa poco o nulla, che racconta trent'anni di rapporti tra mafia e politica: vale allora la pena presentare questo documento perché tutti gli italiani sappiano e possano reagire all'assuefazione e alla disinformazione. A futura memoria e per il nostro presente.
In occasione dell'uscita del nuovo libro di Marco Travaglio e Peter Gomez proponiamo un documento fondamentale per comprendere alcuni nodi oscuri e importanti della vicenda Dell'Utri e di 'questo Stato' – per usare una celebre e dolorosa definizione del belpaese coniata da Alberto Arbasino. Si tratta della famosa, prima perduta poi misteriosamente rinvenuta intervista rilasciata da Paolo Borsellino il 19 maggio 1992 ai giornalisti Jean Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi. Dire che il libro appena pubblicato da Bur-futuropassato e questo documento si illuminano a vicenda è semplicemente riduttivo. Buona lettura.
19 MAGGIO 1992 - INTERVISTA RILASCIATA DA PAOLO BORSELLINO
ai giornalisti Jean Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi
Tra queste centinaia di imputati ce n'è uno che ci interessa: tale Vittorio Mangano, lei l'ha conosciuto?
«Sì, Vittorio Mangano l'ho conosciuto anche in periodo antecedente al maxiprocesso, e precisamente negli anni fra il '75 e l'80. Ricordo di avere istruito un procedimento che riguardava delle estorsioni fatte a carico di talune cliniche private palermitane e che presentavano una caratteristica particolare. Ai titolari di queste cliniche venivano inviati dei cartoni con una testa di cane mozzata. L'indagine fu particolarmente fortunata perché - attraverso dei numeri che sui cartoni usava mettere la casa produttrice - si riuscì rapidamente a individuare chi li aveva acquistati. Attraverso un'ispezione fatta in un giardino di una salumeria che risultava aver acquistato questi cartoni, in giardino ci scoprimmo sepolti i cani con la testa mozzata. Vittorio Mangano restò coinvolto in questa inchiesta perché venne accertata la sua presenza in quel periodo come ospite o qualcosa del genere - ora i miei ricordi si sono un po' affievoliti - di questa famiglia, che era stata autrice dell'estorsione. Fu processato, non mi ricordo quale sia stato l'esito del procedimento, però fu questo il primo incontro processuale che io ebbi con Vittorio Mangano. Poi l'ho ritrovato nel maxiprocesso perché Vittorio Mangano fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come uomo d'onore appartenente a Cosa Nostra».
Uomo d'onore di che famiglia?
«L'uomo d'onore della famiglia di Pippo Calò, cioè di quel personaggio capo delle famiglie palermitane».
E questo Vittorio Mangano faceva traffico di droga a Milano?
«Il Mangano, di droga... (Borsellino comincia a rispondere, poi si corregge, ndr), Vittorio Mangano, se ci vogliamo limitare a quelle che furono le emergenze probatorie più importanti, risulta l'interlocutore di una telefonata intercorsa fra Milano e Palermo nel corso della quale lui, conversando con un altro personaggio delle famiglie mafiose palermitane, preannuncia o tratta l'arrivo di una partita d'eroina chiamata alternativamente, secondo il linguaggio che si usa nelle intercettazioni telefoniche, come "magliette" o "cavallo". Il Mangano è stato poi sottomesso al processo dibattimentale ed è stato condannato per questo traffico di droga. Credo che non venne condannato per associazione mafiosa - beh, sì per associazione semplice - riporta in primo grado una pena di 13 anni e 4 mesi di reclusione più ;700 milioni di multa... La sentenza di Corte d'Appello confermò questa decisione di primo grado...».
Quando ha visto per la prima volta Mangano?
«La prima volta che l'ho visto anche fisicamente? Fra il '70 e il '75».
Per interrogarlo?
«Sì, per interrogarlo».
E dopo è stato arrestato?
«Fu arrestato fra il '70 e il '75. Fisicamente non ricordo il momento in cui l'ho visto nel corso del maxiprocesso, non ricordo neanche di averlo interrogato personalmente. Si tratta di ricordi che cominciano a essere un po' sbiaditi in considerazione del fatto che sono passati quasi 10 anni».
Dove è stato arrestato, a Milano o a Palermo?
«A Palermo la prima volta (è la risposta di Borsellino; ai giornalisti interessa capire in quale periodo il mafioso vivesse ad Arcore, ndr)».
Quando, in che epoca?
«Fra il '75 e l'80, probabilmente fra il '75 e l'80».
Ma lui viveva già a Milano?
«Sicuramente era dimorante a Milano anche se risulta che lui stesso afferma di spostarsi frequentemente tra Milano e Palermo».
E si sa cosa faceva a Milano?
«A Milano credo che lui dichiarò di gestire un'agenzia ippica o qualcosa del genere. Comunque che avesse questa passione dei cavalli risulta effettivamente la verità, perché anche nel processo, quello delle estorsioni di cui ho parlato, non ricordo a che proposito venivano fuori i cavalli. Effettivamente dei cavalli, non "cavalli" per mascherare il traffico di stupefacenti».
Ho capito. E a Milano non ha altre indicazioni sulla sua vita, su cosa faceva?
«Guardi: se avessi la possibilità di consultare gli atti del procedimento molti ricordi mi riaffiorerebbero...».
Ma lui comunque era già uomo d'onore e negli anni Settanta?
«... Buscetta lo conobbe già come uomo d'onore in un periodo in cui furono detenuti assieme a Palermo antecedente gli anni Ottanta, ritengo che Buscetta si riferisca proprio al periodo in cui Mangano fu detenuto a Palermo a causa di quell'estorsione nel processo dei cani con la testa mozzata... Mangano negò in un primo momento che ci fosse stata questa possibilità d'incontro... ma tutti e due erano detenuti all'Ucciardone qualche anno prima o dopo il '77».
Volete dire che era prima o dopo che Mangano aveva cominciato a lavorare da Berlusconi? Non abbiamo la prova...
«Posso dire che sia Buscetta che Contorno non forniscono altri particolari circa il momento in cui Mangano sarebbe stato fatto uomo d'onore. Contorno tuttavia - dopo aver affermato, in un primo tempo, di non conoscerlo - precisò successivamente di essersi ricordato, avendo visto una fotografia di questa persona, una presentazione avvenuta in un fondo di proprietà di Stefano Bontade (uno dei capi dei corleonesi, ndr)».
Mangano conosceva Bontade?
«Questo ritengo che risulti anche nella dichiarazione di Antonino Calderone (Borsellino poi indica un altro pentito ora morto, Stefano Calzetta, che avrebbe parlato a lungo dei rapporti tra Mangano e una delle famiglie di corso dei Mille, gli Zanca, ndr)...».
Un inquirente ci ha detto che al momento in cui Mangano lavorava a casa di Berlusconi c'è stato un sequestro, non a casa di Berlusconi però di un invitato (Luigi D'Angerio, ndr) che usciva dalla casa di Berlusconi.
«Non sono a conoscenza di questo episodio».
Mangano è più o meno un pesce pilota, non so come si dice, un'avanguardia?
«Sì, le posso dire che era uno di quei personaggi che, ecco, erano i ponti, le "teste di ponte" dell'organizzazione mafiosa nel Nord Italia. Ce n'erano parecchi ma non moltissimi, almeno tra quelli individuati. Un altro personaggio che risiedeva a Milano, era uno dei Bono (altri mafiosi coinvolti nell'inchiesta di San Valentino, ndr) credo Alfredo Bono che nonostante fosse capo della famiglia della Bolognetta, un paese vicino a Palermo, risiedeva abitualmente a Milano. Nel maxiprocesso in realtà Mangano non appare come uno degli imputati principali, non c'è dubbio comunque che... è un personaggio che suscitò parecchio interesse anche per questo suo ruolo un po' diverso da quello attinente alla mafia militare, anche se le dichiarazioni di Calderone (nel '76 Calderone è ospite di Michele Greco quando arrivano Mangano e Rosario Riccobono per informare Greco di aver eliminato i responsabili di un sequestro di persona avvenuto, contro le regole della mafia, in Sicilia, ndr) lo indicano anche come uno che non disdegnava neanche questo ruolo militare all'interno dell'organizzazione mafiosa...».
Dunque Mangano era uno che poi torturava anche?
«Sì, secondo le dichiarazioni di Calderone».
Dunque quando Mangano parla di "cavalli" intendeva droga?
«Diceva "cavalli" e diceva "magliette", talvolta».
Perché se ricordo bene c'è nella San Valentino un'intercettazione tra lui e Marcello Dell'Utri, in cui si parla di cavalli (dal rapporto Criminalpol: «Mangano parla con tale dott. Dell'Utri e dopo averlo salutato cordialmente gli chiede di Tony Tarantino. L'interlocutore risponde affermativamente... il Mangano riferisce allora a Dell'Utri che ha un affare da proporgli e che ha anche "il cavallo" che fa per lui. Dell'Utri risponde che per il cavallo occorrono "piccioli" e lui non ne ha. Mangano gli dice di farseli dare dal suo amico "Silvio". Dell'Utri risponde che quello lì non "surra" [non c'entra, ndr]»).
«Sì, comunque non è la prima volta che viene utilizzata, probabilmente non si tratta della stessa intercettazione. Se mi consente di consultare (Borsellino guarda le sue carte, ndr). No, questa intercettazione è tra Mangano e uno della famiglia degli Inzerillo... Tra l'altro questa tesi dei cavalli che vogliono dire droga è una tesi che fu asseverata nella nostra ordinanza istruttoria e che poi fu accolta in dibattimento, tant'è che Mangano fu condannato».
E Dell'Utri non c'entra in questa storia?
«Dell'Utri non è stato imputato nel maxiprocesso, per quanto io ricordi. So che esistono indagini che lo riguardano e che riguardano insieme Mangano».
A Palermo?
«Sì. Credo che ci sia un'indagine che attualmente è a Palermo con il vecchio rito processuale nelle mani del giudice istruttore, ma non ne conosco i particolari».
Dell'Utri. Marcello Dell'utri o Alberto Dell'Utri? (Marcello e Alberto sono fratelli gemelli, Alberto è stato in carcere per il fallimento della Venchi Unica, oggi tutti e due sono dirigenti Fininvest, ndr).
«Non ne conosco i particolari. Potrei consultare avendo preso qualche appunto (Borsellino guarda le carte, ndr), cioè si parla di Dell'Utri Marcello e Alberto, entrambi».
I fratelli?
«Sì».
Quelli della Publitalia, insomma?
«Sì».
E tornando a Mangano, le connessioni tra Mangano e Dell'Utri?
«Si tratta di atti processuali dei quali non mi sono personalmente occupato, quindi sui quali non potrei rivelare nulla».
Sì, ma nella conversazione con Dell'Utri poteva trattarsi di cavalli?
«La conversazione inserita nel maxiprocesso, se non piglio errori, si parla di cavalli che dovevano essere mandati in un albergo (Borsellino sorride, ndr). Quindi non credo che potesse trattarsi effettivamente di cavalli. Se qualcuno mi deve recapitare due cavalli, me li recapita all'ippodromo, o comunque al maneggio. Non certamente dentro l'albergo».
In un albergo. Dove?
«Oddio i ricordi! Probabilmente si tratta del Plaza (l'albergo di Antonio Virgilio, ndr) di Milano».
Ah, oltretutto.
«Sì».
C'è una cosa che vorrei sapere. Secondo lei come si sono conosciuti Mangano e Dell'Utri?
«Non mi dovete fare queste domande su Dell'Utri perché siccome non mi sono interessato io personalmente, so appena... dal punto di vista, diciamo, della mia professione, ne so pochissimo, conseguentemente quello che so io è quello che può risultare dai giornali, non è comunque una conoscenza professionale e sul punto non ho altri ricordi».
Sono di Palermo tutti e due...
«Non è una considerazione che induce alcuna conclusione... a Palermo gli uomini d'onore sfioravano le 2000 persone, secondo quanto ci racconta Calderone, quindi il fatto che fossero di Palermo tutti e due, non è detto che si conoscessero».
C'è un socio di Dell'Utri tale Filippo Rapisarda (i due hanno lavorato insieme; la telefonata intercettata di Dell'Utri e Mangano partiva da un'utenza di via Chiaravalle 7, a Milano, palazzo di Rapisarda, ndr) che dice che questo Dell'Utri gli è stato presentato da uno della famiglia di Stefano Bontade (i giornalisti si riferiscono a Gaetano Cinà che lo stesso Rapisarda ha ammesso di aver conosciuto con il boss dei corleonesi, Bontade, ndr).
«Beh, considerando che Mangano apparteneva alla famiglia di Pippo Calò... Palermo è la città della Sicilia dove le famiglie mafiose erano le più numerose - almeno 2000 uomini d'onore con famiglie numerosissime - la famiglia di Stefano Bontade sembra che in certi periodi ne contasse almeno 200. E si trattava comunque di famiglie appartenenti a un'unica organizzazione, cioè Cosa Nostra, i cui membri in gran parte si conoscevano tutti e quindi è presumibile che questo Rapisarda riferisca una circostanza vera... So dell'esistenza di Rapisarda ma non me ne sono poi occupato personalmente».
A Palermo c'è un giudice che se n'è occupato?
«Credo che attualmente se ne occupi..., ci sarebbe un'inchiesta aperta anche nei suoi confronti...».
A quanto pare Rapisarda e Dell'Utri erano in affari con Ciancimino, tramite un tale Alamia (Francesco Paolo Alamia, presidente dell'immobiliare Inim e della Sofim, sede di Milano, ancora in via Chiaravalle 7, ndr).
«Che Alamia fosse in affari con Ciancimino è una circostanza da me conosciuta e che credo risulti anche da qualche processo che si è già celebrato. Per quanto riguarda Dell'Utri e Rapisarda non so fornirle particolari indicazioni trattandosi, ripeto sempre, di indagini di cui non mi sono occupato personalmente».
Si è detto che Mangano ha lavorato per Berlusconi.
«Non le saprei dire in proposito. Anche se, dico, debbo far presente che come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose di cui non sono certo poiché ci sono addirittura... so che ci sono addirittura ancora delle indagini in corso in proposito, per le quali non conosco addirittura quali degli atti siano ormai conosciuti e ostensibili e quali debbano rimanere segreti. Questa vicenda che riguarderebbe i suoi rapporti con Berlusconi è una vicenda - che la ricordi o non la ricordi -, comunque è una vicenda che non mi appartiene. Non sono io il magistrato che se ne occupa, quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla».
Ma c'è un'inchiesta ancora aperta?
«So che c'è un'inchiesta ancora aperta».
Su Mangano e Berlusconi? A Palermo?
«Su Mangano credo proprio di sì, o comunque ci sono delle indagini istruttorie che riguardano rapporti di polizia concernenti anche Mangano».
Concernenti cosa?
«Questa parte dovrebbe essere richiesta... quindi non so se sono cose che si possono dire in questo momento».
Come uomo, non più come giudice, come giudica la fusione che abbiamo visto operarsi tra industriali al di sopra di ogni sospetto come Berlusconi e Dell'Utri e uomini d'onore di Cosa Nostra? Cioè Cosa Nostra s'interessa all'industria, o com'è?
«A prescindere da ogni riferimento personale, perché ripeto dei riferimenti a questi nominativi che lei fa io non ho personalmente elementi da poter esprimere, ma considerando la faccenda nelle sue posizioni generali: allorché l'organizzazione mafiosa, la quale sino agli inizi degli anni Settanta aveva avuto una caratterizzazione di interessi prevalentemente agricoli o al più di sfruttamento di aree edificabili. All'inizio degli anni Settanta Cosa Nostra cominciò a diventare un'impresa anch'essa. Un'impresa nel senso che attraverso l'inserimento sempre più notevole, che a un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di capitali. Una massa enorme di capitali dei quali, naturalmente, cercò lo sbocco. Cercò lo sbocco perché questi capitali in parte venivano esportati o depositati all'estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente Cosa Nostra cominciò a porsi il problema e ad effettuare investimenti. Naturalmente, per questa ragione, cominciò a seguire una via parallela e talvolta tangenziale all'industria operante anche nel Nord o a inserirsi in modo di poter utilizzare le capacità, quelle capacità imprenditoriali, al fine di far fruttificare questi capitali dei quali si erano trovati in possesso».
Dunque lei dice che è normale che Cosa Nostra s'interessi a Berlusconi?
«E' normale il fatto che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerca gli strumenti per potere questo denaro impiegare. Sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro. Naturalmente questa esigenza, questa necessità per la quale l'organizzazione criminale a un certo punto della sua storia si è trovata di fronte, è stata portata a una naturale ricerca degli strumenti industriali e degli strumenti commerciali per trovare uno sbocco a questi capitali e quindi non meraviglia affatto che, a un certo punto della sua storia, Cosa Nostra si è trovata in contatto con questi ambienti industriali».
E uno come Mangano può essere l'elemento di connessione tra questi mondi?
«Ma, guardi, Mangano era una persona che già in epoca ormai diciamo databile abbondantemente da due decadi, era una persona che già operava a Milano, era inserita in qualche modo in un'attività commerciale. E' chiaro che era una delle persone, vorrei dire anche una delle poche persone di Cosa Nostra, in grado di gestire questi rapporti».
Però lui si occupava anche di traffico di droga, l'abbiamo visto anche in sequestri di persona...
«Ma tutti questi mafiosi che in quegli anni - siamo probabilmente alla fine degli anni '60 e agli inizi degli anni '70 - appaiono a Milano, e fra questi non dimentichiamo c'è pure Luciano Liggio, cercarono di procurarsi quei capitali, che poi investirono negli stupefacenti, anche con il sequestro di persona».
(A questo punto Paolo Borsellino consegna dopo qualche esitazione ai giornalisti 12 fogli, le carte che ha consultato durante l'intervista) «Alcuni sono sicuramente ostensibili perché fanno parte del maxiprocesso, ormai è conosciuto, è pubblico, alcuni non lo so...». Non sono documenti processuali segreti ma la stampa dei rapporti contenuti dalla memoria del computer del pool antimafia di Palermo, in cui compaiono i nomi delle persone citate nell'intervista: Mangano, Dell'Utri, Rapisarda, Berlusconi, Alamia.
E questa inchiesta quando finirà?
«Entro ottobre di quest'anno...».
Quando è chiusa, questi atti diventano pubblici?
«Certamente...».
Perché ci servono per un'inchiesta che stiamo cominciando sui rapporti tra la grossa industria...
«Passerà del tempo prima che...», sono le ultime parole di Paolo Borsellino.
(Palermo, 21 maggio, 1992)Saverio Lodato e Marco Travaglio
INTOCCABILI
Mafia e Stato, dalla convivenza all'alleanza
E' già nelle librerie "Intoccabili" di Saverio Lodato e Marco Travaglio, che ricostruisce gli ultimi 15 anni di inchieste e processi su mafia e politica, dal pool di Falcone e Borsellino a quello di Caselli a quello di Grasso. Sottotitolo: "Perchè la mafia è al potere. Dai processi Andreotti e Dell'Utri alla normalizzazione. Le verità occultate sui complici di Cosa nostra nella politica e nello Stato" (ed. Rizzoli-Bur, 10 euro).
Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo l'introduzione di Paolo Sylos Labini a "Intoccabili"
L'Introduzione di Paolo Sylos Labini
Chi legge questo libro, alla fine, non può non porsi una domanda: come siamo potuti cadere così in basso? Possibile che la guerra alla mafia, che soltanto dieci anni fa pareva non lontana dal successo, sia finita così male, addirittura con la mafia al potere? E ancora: possibile che il «popolo di geni» di cui vaneggiava Mussolini continui a credere, dopo dieci anni, alle atroci menzogne di un Berlusconi e della sua corte dei miracoli? Verrebbe da concludere che siamo un popolo di imbecilli e di malfattori, altro che geni. Ma, prima di abbandonarci all'angoscia e alla disperazione, proviamo a ragionare.
Al fondo c'è un micidiale, radicale cinismo che domina tutto, un'assuefazione al malaffare che diventa ambiente e costringe le persone civili e oneste – ce ne sono ancora, e tante – a una ammutolita paralisi. Perciò è importante che escano e circolino libri come questo. Perché sono una delle poche armi che ci rimangono per trovare o rinfocolare il coraggio di combattere. È l'informazione particolareggiata dei fatti che dà coraggio. Solo la verità può rendere liberi quanti oggi non vogliono essere servi, ma finiscono per esserlo inconsapevolmente, col torpore rassegnato che li paralizza. Una condizione che io spiego non solo col nostro machiavellico cinismo, ma anche con qualcosa di ancora peggiore: una grave carenza di autostima, come direbbe Adam Smith; un diffuso autodisprezzo, come dico io. Spesso, dopo infinite discussioni su questi temi, mi capita di sentire da persone di «destra» e di «sinistra» la terribile battuta: «Ma che diavolo pretendi, in fondo siamo italiani!». E ogni volta mi domando perché ci siamo ridotti in questo stato miserabile, in questo abisso di abiezione che, sotto certi aspetti, è peggiore di quello in cui ci aveva cacciati Mussolini. Certo, la mancanza di senso dello Stato, che deriva dalla mancanza di uno Stato. Certo, la superficialità della cultura popolare e la grave debolezza della borghesia intellettuale ed economica spiegano il carattere volubile dell'opinione pubblica e la facilità con cui viene sistematicamente ingannata per mezzo del micidiale potere persuasivo del monopolio televisivo. Certo, i guasti della Controriforma senza Riforma. Certo, i sottoprodotti della morale cattolica, che privilegia la misericordia piuttosto che la giustizia. Non tanto perché sia migliore il protestantesimo rispetto al cattolicesimo, ma perché da noi la Chiesa ha avuto il potere temporale, e dunque ha usato la religione come instrumentum regni. Mi ha sempre colpito il racconto di Nassau Senior, un economista mediocre, famoso più che altro per gli attacchi che gli riservò Karl Marx. A metà dell'Ottocento la sua passione per i viaggi e per la conoscenza dei potenti d'Europa lo portò a Roma, dove conobbe il papa e dipinse un quadro raccapricciante dello Stato pontificio. Senior racconta di un confessore che, a una donna con un figlio di idee liberali, impose di denunciarlo con tutti i particolari in cambio dell'assoluzione. La donna ci pensò qualche giorno, poi denunciò il figlio, che fu arrestato e torturato. Come meravigliarci, allora, se l'Unità d'talia non s'è mai davvero compiuta, se il bene comune non è mai stato considerato come un obiettivo di tutti, a dispetto del nostro nazionalismo di cartapesta?
L'uomo è un animale sociale e aspira ad avere l'orgoglio di appartenere a una comunità: la famiglia, il gruppo, la patria. Ora, la Patria in Italia è venuta tardi e in condizioni infelici. Ancora un secolo fa l'analfabetismo era gigantesco. Quando all'inizio del Novecento Salvemini si batteva per il suffragio universale, le persone che avevano diritto al voto erano il 6-7% della popolazione. Con una legge di Giolitti salirono al 20%, perché per votare bisognava saper leggere e scrivere e avere un piccolo peculio; il voto, poi, era concesso solo agli uomini. Il pericolo del fascismo lo capirono in pochi, all'inizio. Lo stesso Benedetto Croce fu per anni filofascista e, da senatore, votò a favore di Mussolini, anche dopo il delitto Matteotti. Solo in seguito divenne uno dei padri dell'antifascismo. Anche nell'esigua cultura liberale dell'epoca, quelli che denunciarono il regime fin dall'inizio non furono molti: Piero Gobetti, Giustino Fortunato e pochi altri. Retorica a parte, il cosiddetto impero e poi la seconda guerra mondiale, con tutti quei richiami all'antica Roma, non potevano certo far crescere l'autostima del popolo italiano e quindi l'amor di Patria. E infatti l'ubriacatura passò in fretta, con la campagna di Grecia, che svelò a tutti la nostra assoluta impreparazione. L'ostilità al regime divenne diffusa e fortissima e poi la sconfitta apparve ignominiosa proprio perché gli Italiani si resero conto dell'irresponsabilità del capo, che si autoproclamava infallibile ma che aveva gettato l'Italia in
quelle condizioni nella fornace di una guerra terribile. Penso che la morte della Patria – speriamo temporanea – risalga a quella tragedia.
Attenzione: anche la mafia è una comunità, con le sue regole, il suo codice, il suo diritto, le sue istituzioni. Per coloro che ne fanno parte, pure se si definiscono «uomini d'onore», è più difficile provare orgoglio. Ma è più facile toccarne con mano i benefici: ricchezze, potenza, protezione. La studio da quarant'anni, la mafia: da quando Giangiacomo Feltrinelli, nel 1958, mi propose di organizzare un gruppo di ricercatori – io ero professore a Catania – per condurre un'indagine ad ampio raggio in Sicilia, che alla fine diventò un corposo volume di 1500 pagine. Nel giugno 1965, dopo Catania, fui ascoltato dalla commissione parlamentare Antimafia, presieduta dal senatore Donato Pafundi (la mia deposizione fu poi pubblicata nel 1970 da Laterza in Problemi dello sviluppo economico). Nel 1974, come si ricorda in questo libro, mi dimisi dal comitato tecnicoscientifico del ministero del Bilancio, di cui facevo parte da circa un decennio, quando il titolare di quel dicastero, Giulio Andreotti, nominò sottosegretario Salvo Lima. Siccome Lima compariva più volte nelle relazioni dell'Antimafia ed era stato oggetto
di ben quattro richieste di autorizzazione a procedere della magistratura, feci presente la cosa al mio amico Nino Andreatta, perché ne parlasse con Aldo Moro, presidente del Consiglio. Qualche giorno dopo Andreatta tornò da me con la coda fra le gambe: Moro gli aveva confessato la sua impotenza, perché " gli aveva detto " «Lima è troppo forte e troppo pericoloso». Allora affrontai l'argomento direttamente con Andreotti, dicendogli: «O lei revoca la nomina di Lima, che scredita l'immagine del ministero, o mi dimetto». Non mi lasciò neppure finire: mi interruppe e mi liquidò dicendo che ne avremmo parlato un'altra volta. A quel punto resi ufficiali le dimissioni. La mia lettera fu pubblicata dal «Corriere della Sera» e da vari altri giornali, e la cosa fece un certo scalpore per alcune settimane. Ci furono anche delle vibrate proteste dei giovani Dc. Poi calò l'oblio. Di quella faccenda si tornò a parlare quando Gian Carlo Caselli e i suoi pm mi chiamarono a testimoniare al processo Andreotti: era chiaro, da quell'episodio, che Andreotti – e non solo lui – sapeva benissimo chi era Lima. Lo sapevo persino io... La cosa che mi colpì fu che il mio gesto fu visto come prova di coraggio non comune. È deprimente che, in Italia, un gesto di normale decenza venga visto così. Dà la misura di come ci siamo ridotti. Tutti mi domandavano: ma come ha fatto, dove ha trovato la forza? Io rispondevo: ma quale forza, ma quale coraggio? C'era una persona che non ritenevo perbene, non volevo lavorarci insieme, e me ne andai. Tutto qui. È stato facile.
Nella deposizione prima ricordata ho cercato di chiarire i miei punti di vista sulle origini della mafia e sulle sue caratteristiche attuali. Che cosa sia oggi questo libro di Lodato e Travaglio lo spiega benissimo. Mafia vuol dire appalti, licenze edilizie, aree fabbricabili, sistemi di irrigazione, controllo dei mercati ortofrutticoli e sull'acqua, cioè sulla vita dei siciliani, e poi commercio di droga e altri affari sporchi, ma anche «puliti» come il Ponte sullo Stretto e la grande mangiatoia della sanità pubblica. Ma, soprattutto, mafia vuol dire agganci con la politica, con l'economia, con pezzi delle istituzioni che non saprei nemmeno se chiamare «deviate» oppure no (in questo paese i deviati rischiano di essere quelli che la mafia la combattono davvero). Sono queste le sue assicurazioni sulla vita, le ragioni della sopravvivenza di un'organizzazione tutto sommato arcaica in pieno terzo millennio. Il libro spiega anche com'è cambiata l'antimafia, o forse come non è cambiata, essendo sempre stata affidata a pochi «volontari», isolati e forse anche un po' matti. Cioè a una élite di poliziotti, carabinieri, magistrati, giornalisti, intellettuali e politici che hanno maturato, non si sa come, quel senso dello Stato e dell'autostima che non è mai diventato patrimonio di tutti.
La cultura delle regole, il senso della legalità, l'amore per la trasparenza sono da sempre minoritari, in Italia. Per una serie infinita di fattori storici, da noi non s'è mai affermata una cultura liberale e democratica di massa: i liberalsocialisti come i liberalconservatori sono sempre stati quattro gatti, guardati con un misto di sospetto e di curiosità dai ceti dominanti. Il che spiega perché l'autoritarismo, come la cultura mafiosa, hanno sempre trovato terreno fertile. E spiega anche perché oggi il regime berlusconiano, terribile sintesi della cultura autoritaria e di quella mafiosa, incontra resistenze così scarse.
Hanno ragione gli autori del libro quando, a proposito della mafia, parlano di «cosiddetto Antistato». Perché troppo spesso i confini fra Stato e Antistato sono confusi, invisibili, vischiosi, come quelli fra legalità e illegalità. Anche la mafia è stata, nel corso dell'ultimo secolo, un instrumentum regni da imbrigliare e utilizzare per scopi di potere. La sentenza Andreotti, che qui viene finalmente raccontata per quello che dice davvero, dopo anni di bugie infami, è illuminante. La politica combatte Cosa Nostra quando alza troppo la testa, quando pretende di comandare anziché collaborare, poi torna al tavolo della trattativa per stabilire nuovi patti e nuovi equilibri. L'uomo politico che chiede favori alla mafia non può poi agire autonomamente e tanto meno prendere misure contro la mafia, credendosi forte del suo potere politico. Se lo fa, viene punito. Mutando quel che va mutato, questo vale anche per chi entra in rapporti di dare e avere con Berlusconi. E non mancano le tragedie greche. Mattarella aveva due figli che vollero cambiare linee di condotta; uno divenne presidente della Regione siciliana e decise di ostacolare la distribuzione degli appalti alla mafia.
Fu assassinato. Chi è visto come ostacolo all'eterna trattativa fra politici e mafiosi – cioè le élites più avanzate della politica, della cultura e della magistratura – viene isolato come un fastidioso ingombro e tolto di mezzo. Col tritolo o con le campagne mediatiche di delegittimazione. Oggi, poi, la politica intesa come mediazione fra Stato legale e Stato illegale ha fatto un altro salto di qualità: il ministro Lunardi, quando dice che «con la mafia bisogna convivere», pecca di minimalismo. Fino ad Andreotti, lo Stato conviveva con la mafia. Oggi, con i Berlusconi e i Dell'Utri al potere, dei quali anche questo libro dimostra inoppugnabilmente i legami con la mafia, è peggio di prima, peggio di sempre: dalla convivenza siamo passati all'alleanza.
Una vera lotta alla mafia si può fare soltanto con un governo che non abbia rapporti con la mafia. Un governo che non sia come quello di oggi, e come molti di ieri. Certo, quando sarà passato il lungo incubo che ha spazzato via i due o tre anni di successi seguiti allo choc delle stragi del 1992-93, sarà difficile ricominciare. Perché questo lungo incubo, che si chiama Berlusconi e dura ormai da dieci anni anche per le furbizie di un'opposizione debole se non addirittura complice, ha vieppiù abbassato la nostra già scarsa autostima. In una spirale perversa che non sembra avere mai fine, ha creato ulteriore assuefazione. E ha fiaccato le speranze e gli entusiasmi che sarebbero
necessari per riprendere la lotta. L'antimafia è affidata ai «pochi pazzi malinconici» di cui parlava Salvemini. Io mi sento un pazzo triste ma arrabbiato: e forse quel che mi salva è proprio la rabbia.
Non è questione di ottimismo o di pessimismo. Occorre ritrovare il realismo che nasce dalla conoscenza della nostra storia, con le sue luci e le sue ombre. Non bisogna mai dimenticare né le une né le altre. Per me, poi, c'è anche una lunga esperienza personale, che, con mia meraviglia, ebbe una conclusione positiva. Ricordo quando mi scontrai con Giacomo Mancini, che nel Psi era una potenza e in Calabria un ras incontrastato. Pretendeva che la nuova università di Cosenza sorgesse in una zona che gli stava a cuore per certi interessi suoi o dei suoi amici. Andreatta e io, in quanto membri del comitato che doveva organizzare la nuova università, contrastammo le sue manovre e riuscimmo a farla nascere in tutt'altro luogo, molto più adatto al suo sviluppo. Mancini pretendeva pure che dovessimo dare un incarico d'insegnamento a un suo protetto. Tutto ciò al prezzo di una denuncia e di un'incriminazione da parte di un giudice legato a Mancini, che mi tenne sotto inchiesta per anni, privandomi addirittura del passaporto (per due lustri fui costretto, ogni volta che andavo all'estero, a recarmi alla Farnesina e chiedere un permesso speciale per l'espatrio). Poi, quando scemò l'influenza di Mancini, ebbero finalmente il coraggio di assolvermi. Con formula non piena, ma pienissima: «il fatto non sussiste». Erano tutte calunnie. Oggi l'Università della Calabria funziona bene, con ottime attrezzature e 26.000 studenti. Mi hanno anche invitato, come uno dei padri fondatori. È una storia a lieto fine: mi è costata molte pene, ma è stato giusto patirle. L'esperienza è incoraggiante, perché dimostra che chi intraprende una battaglia civile non è condannato al fallimento: se ha tenacia, può vincere.
Intendiamoci. Dinanzi al quadro che emerge dal libro, la tentazione sarebbe quella dell'angoscia e della disperazione. La prima è sacrosanta, e anche salutare. La seconda no, guai a disperare: a mente fredda, sarebbe un errore. Scriveva Calamandrei nel suo diario il 23 novembre 1939: «la tragedia dell'Italia è proprio questa generale putrefazione morale, questa indifferenza, questa vigliaccheria». Ma poi venne la Resistenza: non tutti furono eroi veri, molti furono eroi per caso o per necessità. Ma il nucleo forte trascinò tanti, contribuì a liberarci dal nazifascismo e – con uno di quei miracoli che a volte fanno le minoranze agguerrite – ci regalò la Costituzione, che oggi è presa a colpi di piccone dalla banda Berlusconi. Ecco, lo stesso direi oggi per la lotta alla mafia: in alcune fasi storiche – quella di Chinnici, Caponnetto, Falcone e Borsellino, e poi quella di Caselli e dei suoi uomini – le minoranze che si sentono Stato e Patria hanno trascinato la maggioranza verso esiti straordinari, oggi in via di smantellamento.
Questo libro, perforando il sudario di un'informazione serva e di una disinformazione organizzata, ci aiuta a conoscere tali risultati. E dunque a non dimenticarli, anche se la luminosa stagione che li ha determinati è finita da un pezzo. Quanto sia stata importante lo dimostrano i continui tentativi di deturparne il ricordo: da parte sia di chi ne parla male, sia di sepolcri imbiancati che ne parlano bene. Intanto anche nella magistratura, in sintonia con le esigenze di politici senza scrupoli, si manifestano le viltà, i servilismi, il «tirare a campare», i compromessi meschini. Ma finirà anche questa stagione buia. L'importante è sapere che contro la mafia e i suoi protettori nelle istituzioni e nei consigli di amministrazione si possono fare grandi cose. Si sono fatte grandi cose. Se la prima e la seconda ondata dell'attacco, come quelle dei fanti in certe battaglie della prima guerra mondiale, sono state decimate e respinte, la terza potrà avere successi più duraturi. Basta aver chiaro fin da subito che anche quella sarà una battaglia di minoranza, e anche per quella bisognerà mettere in conto la solitudine.
Intanto, per preparare la battaglia, bisogna conoscere. È fondamentale l'informazione. L'attacco va portato con fatti inoppugnabili e documentati. Come quelli raccontati in questo libro, che ci aiuta a capire da chi e come siamo stati e siamo governati, ma anche come si è riusciti a sconfiggere il pool di Caselli, come già quello di Borrelli a Milano. E, soprattutto, perché. Ci sono verità troppo forti perché il Potere le affidi a cuor leggero a magistrati «ingestibili», che intendono applicare semplicemente la legge in maniera uguale per tutti. Quelle verità, quando sono ormai scritte in sentenze definitive " come quella su Andreotti " devono essere per forza cancellate e oscurate, perché non giungano sotto gli occhi dell'opinione pubblica. Per quelle, invece, ancora giudiziariamente da accertare (dalle varie «trattative» fra Stato e mafia al capitolo dei «mandanti occulti» delle stragi), si seguono i canoni della «guerra preventiva»: si tolgono di mezzo i magistrati che potrebbero, presto o tardi, scoperchiarle. La mafia, come ogni forma di illegalità, campa e ingrassa sull'ignoranza. E nel nostro regime di oggi l'ignoranza viene diffusa a reti unificate, facendo leva sui nostri due peggiori vizi nazionali, i sottoprodotti della nostra scarsissima autostima che spesso copriamo col patriottismo ipocrita: la cupidigia di servilismo e la cupidigia di abiezione. Chi vuole conoscere, o perlomeno intravedere, le verità indicibili che oggi costituiscono la vera posta in gioco non ha che da leggere questo libro. Più sarà diffusa la conoscenza, più sarà difficile l'insabbiamento.Peter Gomez e Marco Travaglio
INCIUCIO
Come la sinistra ha salvato Berlusconi
La grande abbuffata Rai e le nuove censure di regime, da Molière al caso Celentano.
L’attacco all’Unità e l’assalto al Corriere.
Prefazione di Giorgio Bocca.
È dall’inizio dell’èra Berlusconi che questa sinistra ipocrita fa campagna contro chiunque si opponga al suo doppio gioco. Ma che rispetto si può avere per gente che se ne infischia della libertà d’informazione e mira soltanto a stare nella stanza dei comandi e dei buoni stipendi?
Giorgio Bocca
L’“inciucio” compie dieci anni. Il primo a parlarne fu Massimo D’Alema, nel 1995. Poi, in sei anni di governo, il centrosinistra evitò di risolvere il conflitto d’interessi e di liberalizzare il mercato televisivo. Risultato: informazione taroccata modello Tg1 e niente satira politica. Dopo Regime, questo libro racconta le acrobazie parlamentari dei ne¬mici-amici del Cavaliere e le spartizioni “bipartisan” delle Authority e della Rai. Poi le nuove censure di regime contro Biagi, Santoro, Luttazzi, Freccero, Sabina e Corrado Guzzanti, Grillo, Paolo Rossi, Massimo Fini, Beha e altri militi ignoti; e gli attacchi a Report, Fo, Hendel, XII Round e così via, fino a Celentano & C. Senza dimenticare i giornali: la guerra a Furio Colombo e gli assalti estivi dei “furbetti del quartierino” al “Corriere della Sera”, con l’appoggio della finanza bianca, azzurra e rossa. Alla fine, una proposta di legge e un appello al governo che verrà: perché restituisca la televisione pubblica al suo vero padrone, il pubblico.
Prefazione di Giorgio Bocca
Si intende per «inciucio» la perenne tentazione italiana all'unanimismo, al far mucchio, al camuffare l'adesione alla maggioranza come una opposizione. Con il berlusconismo al potere questa tentazione si è manifestata in modo irresistibile e impudico: gli oppositori di Berlusconi, la sinistra, hanno cercato di aiutarlo, di imitarlo, di giustificarlo. L'«Unità» antiberlusconiana di Furio Colombo si è fatto e si fa di tutto per smantellarla. Il leader della Rifondazione comunista Bertinotti è l'uomo politico ospitato più di ogni altro da Porta a Porta, informazione di regime. La letteratura forcaiola e antipartigiana di Giampaolo Pansa è la più recensita. Ed è di gran voga il berlusconismo malgré nous delle penne eleganti, a cui il Cavaliere piace da morire perché sarà un cafone, sarà un antidemocratico, ma come si batte, che tenacia, che volontà, ma sì, teniamocelo per altri cinque o dieci anni. È dall'inizio dell'èra Berlusconi che questa sinistra ipocrita fa campagna contro chiunque si opponga al suo bipartisanismo, al suo doppio gioco. Per anni Furio Colombo e la sua «Unità» sono stati considerati da questa sinistra i nemici numero uno, peggio degli eredi di Salò, peggio dei terroristi neri. L'argomento decisivo e sintetico usato dal riformismo cialtrone era: «Colombo fuori dai coglioni». Marco Travaglio e Peter Gomez non sono solo dei nemici, ma una malattia, fanno venire l'orticaria. La sinistra intransigente è una sorta di setta diabolica, da isolare, da emarginare, da confinare nel silenzio, da tener lontana dalle televisioni e dalle comunicazioni. Il teorema del berlusconismo può essere questo: una società in transizione confusa e trasformistica si identifica nell'uomo che più le somiglia, che meglio la rappresenta; e ne fa un capo indiscutibile. Negli anni Venti quell'uomo è Mussolini e siccome è un tribuno, un violento, un istintivo, si può farne l'uomo del destino. E così nel contemporaneo con Berlusconi, che ha ripreso e rilanciato l'operazione politica perseguita anche da Craxi il cinghialone, l'uomo forte che va al potere, non importa se corrotto. L'Inciucio di Gomez e Travaglio indulge anche a polemiche minori, come quelle su Giuliano Ferrara e la Armeni, ma è una raccolta precisa e seria sul trasformismo italiano. E anche una analisi seria degli errori e delle omissioni della sinistra negli anni in cui fu al governo e in cui non seppe fare le leggi antitrust e sul conflitto di interessi, consentendo a Berlusconi di durare e di riproporsi con protervia. L'accusa più forte che il campo «riformista», cioè trasformista, muove a Marco Travaglio non è politica, ma caratteriale: Travaglio è antipatico, fa venire l'orticaria al povero Bertinotti, e non solo a lui. Il trasformismo è attento alle buone maniere, al bon ton. Passa con grande stile dal laicismo all'obbedienza al cardinal Ruini, dal marxismo al gesuitismo, da Darwin ai creazionisti. E chi lo considera un male perenne del Paese è un essere infetto da isolare, da mettere a tacere. Ma che rispetto intellettuale e politico si può avere per gente che, in buona sostanza, se ne infischia della libertà di informazione e mira soprattutto e soltanto a stare nella stanza dei comandi e dei buoni stipendi?
Introduzione di P.Gomez e M.Travaglio
Dicono gli annali della politica che il primo a parlare di «inciucio» fu Massimo D'Alema. «Una cosa - disse a "Repubblica" - mi inquieta: l'inciucione, ma glielo racconto un'altra volta...» Era il 28 ottobre 1995, dieci anni fa. Poi, invece di raccontarlo, tentò di farlo. Con il governissimo Maccanico e poi con la Bicamerale. O forse - come ha rivelato nel 2002 in piena Camera Luciano Violante - l'aveva già fatto nel '94 promettendo a Silvio Berlusconi di non toccargli quanto ha di più caro: le televisioni. Nel Dizionario della lingua italiana di Tullio De Mauro (Paravia), alla voce «inciucio» si legge: «Nel linguaggio giornalistico, accordo informale fra forze politiche di ideologie contrapposte che mira alla spartizione del potere». Dieci anni dopo, in questo libro, raccontiamo gli inciuci che hanno portato alla spartizione della televisione pubblica da parte dei partiti di destra e di sinistra, e all'occupazione militare di quella privata da parte di un signore che, per inciso, è anche capo del governo. Con tanti saluti alla libertà d'informazione, alla libera concorrenza, alla separazione dei poteri. Quante volte ci siamo domandati: ma come ha potuto Silvio Berlusconi arrivare dove sappiamo? Lui dice che si è fatto da solo, ma pecca di ingratitudine verso i tanti che gli han dato una mano. Certo, la loggia P2. Certo, i suoi misteriosi finanziatori degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Certo, Bettino Craxi e tutto il Caf. Ma tutto questo è finito nel 1993. E poi? Negli ultimi dodici anni, dopo la «discesa in campo», il Cavaliere ha governato 7 mesi la prima volta e 54 la seconda. Cinque anni e poco più. In mezzo, per sei anni e poco più, ha governato il centrosinistra. E proprio in quei sei anni Silvio Berlusconi, dato politicamente per morto, ha risolto brillantemente tutti i suoi problemi finanziari, riservandosi di sistemare quelli giudiziari nel suo secondo governo. Missione compiuta. Secondo Bill Emmott, direttore di un settimanale non proprio sovversivo come l'«Economist», «Berlusconi è una creatura dell'opposizione». E, aggiungiamo noi, viceversa. In questo libro, che è il seguito naturale di Regime, raccontiamo che cosa è accaduto nell'ultimo decennio: da quando quel cadavere politico fu rianimato dai suoi sedicenti oppositori con respirazioni bocca a bocca, promosso padre costituente, beneficiato prima con provvidenziali «distrazioni» che gli consentirono di quotare in Borsa i suoi debiti, poi con leggi su misura (vedi alla voce Maccanico) e leggi insabbiate (vedi alla voce conflitto d'interessi) che salvarono il suo monopolio dichiarato incostituzionale dalla Consulta fin dal '94. Lo facciamo mettendo in fila i fatti, con qualche retroscena e documento inedito. Per esempio i rapporti dei «Comitati corporate» del Biscione, cioè delle riunioni del 1993 a Milano2 in cui Berlusconi e i suoi boys pianificavano l' occupazione della Rai per salvare la Fininvest. Per esempio i carteggi segreti degli emissari in Italia delle major americane, che informavano allibiti i big boss di Hollywood di quanto stava accadendo con il duopolio che diventava monopolio. Raccontiamo come la rinata partitocrazia di destra e di sinistra s'è mangiata la televisione «pubblica» (per non parlare delle Authority) con un inciucione bipartisan che ha la faccia di Claudio Petruccioli, il presidente diessino della Rai scelto dal padrone di Mediaset. Raccontiamo le nuove censure del regime che declina, sempre più patetiche e disperate: le ultime (si spera) raffiche dei gerarchi in fuga contro Enzo Biagi, Michele Santoro, Massimo Fini, Oliviero Beha, Report di Milena Gabanelli, Carlo Freccero, i ragazzi di XII Round, Daniele Luttazzi, Corrado e Sabina Guzzanti, Beppe Grillo, Paolo Rossi, Dario Fo, Paolo Hendel, Monica Guerritore, Adriano Celentano e i tanti militi ignoti della fu informazione. Raccontiamo le nuove gesta del Tg1-Pravda di Clemente J. Mimun e degli altri Cinegiornali Luce anni 2000. Raccontiamo vita e miracoli degli Inciucio Boys, gli eterni galleggianti che piacciono a tutti perché servono a tutti, anzi servono tutti: i Vespa di destra, i Vespa di sinistra, i Vespa contemporaneamente di destra e di sinistra, buoni per tutte le stagioni. E dunque, oltre al capostipite di Porta a Porta, Enrico Mentana, Giovanni Floris, Barbara Palombelli, Klaus Davi, Lucia Annunziata e il forzista dalemiano Inciucio Agostino Saccà con l'amico del cuore Claudio Velardi. Raccontiamo i talk show ridotti a salotti di chiacchiere fra politici e soubrettes, con il semiconduttore di turno che dirige il traffico delle opinioni e garantisce l'assenza di notizie e fatti. Raccontiamo infine gli assalti a due giornali politicamente lontani mille miglia, ma ancora faticosamente liberi: la cacciata di Furio Colombo dall'«Unità», reclamata a gran voce da Berlusconi e prontamente concessa dalla Quercia; e la scalata al «Corriere della Sera» tentata dai «furbetti del quartierino» ben appoggiati dalla finanza berlusconiana, dalla finanza fazista e dalla finanza rossa, e fortunatamente fallita grazie alla Procura di Milano. Ogni notizia, affermazione, citazione contenuta nel libro è accompagnata da una nota che ne indica la fonte. Sui fatti, dunque, chiediamo di essere giudicati ed eventualmente smentiti. Non su categorie dello spirito come «demonizzazione», «girotondismo», «riformismo», «radicalismo», che francamente sfuggono a noi umili cronisti. Alla fine della lettura - è capitato a noi alla fine della scrittura - viene una gran voglia di usare le mani. Per fare qualcosa di buono, s'intende. Noi proponiamo un paio di esercizi semplici semplici. Sottoscrivere l'appello che Sabina Guzzanti e un gruppo di giornalisti, artisti e intellettuali hanno lanciato per liberare la televisione dal cancro dei partiti. E aderire al progetto di legge di iniziativa popolare per un sistema televisivo di respiro europeo che un gruppo di esperti, riuniti intorno a Tana de Zulueta, ha approntato per offrirlo ai leader del centrosinistra che si candidano a governare dal 2006. È un libro contro Berlusconi e l'Unione? Un libro qualunquista che vuole dimostrare che, a destra come a sinistra, «sono tutti uguali»? No, non lo è. È un libro che racconta fatti (purtroppo) realmente accaduti. Con quali scopi? Soprattutto due. Primo: tentare di spiegare come mai nel 2004 e nel 2005 l'Italia è precipitata nella classifica di Freedom House (letteralmente «Casa della libertà», ma americana) sulla libertà d'informazione fra i paesi «parzialmente liberi»: prima al 74° e ora al 77° posto, fra la Bulgaria e la Mongolia. E perché negli ultimi anni il nostro Paese è stato ammonito, redarguito, condannato dall'Onu, dal Parlamento europeo, dal Consiglio d'Europa, dall'Osce e da Reporters sans frontierès. Secondo: descrivere le nostre classi dirigenti di destra e di sinistra per quel che sono e per quello che han fatto. Sappiamo che la libertà d'informazione ha un nemico pubblico numero uno: si chiama Silvio Berlusconi e l'abbiamo vivisezionato in tanti, forse troppi libri. Finché c'è lui in politica, sappiamo almeno per chi non votare. Ma siamo certi che, caduto lui, l'Italia riconquisterà come per incanto le libertà perdute? Sarebbe disonesto raccontare simili fiabe della buonanotte. Se Berlusconi è arrivato fin qui, è perché a sinistra tanti, troppi gliel'hanno permesso. Non sappiamo perché l'han fatto. Ma sappiamo che l'han fatto. Non sappiamo se l'han fatto gratis oppure no. Ma,nell'un caso e nell'altro, c'è poco da stare allegri. Se chi ha fatto inciuci nella passata legislatura e poi, nel 2001, ha perso le elezioni fosse andato a casa, come avviene dappertutto fuorché in Italia, potremmo permetterci il lusso di attendere con fiducia il ricambio, l'alternanza. Non è così: quanti si candidano a governare l'Italia dopo Berlusconi (ammesso che il dopo Berlusconi non si chiami più Berlusconi) sono gli stessi che, messi alla prova per sei anni e più, si sono ben guardati dal liberare il mercato della televisione, cioè della magna pars dell'informazione. Rivedendoli all'opera retrospettivamente, appare chiaro che non si erano «sbagliati», non si erano «distratti». Erano scelte consapevoli: è la loro politica. Non è che non siano riusciti a risolvere il conflitto d'interessi, a varare una legge antitrust e a levare le zampe dalla tv per una congiunzione astrale sfavorevole o per le avverse condizioni meteorologiche. Non hanno voluto farlo. Perché trovano assolutamente normale che sia la politica a comandare sulla Rai. Tramite direttori-manutengoli a cui telefonare gli ordini di scuderia, o a cui nemmeno telefonare perché gli ordini li conoscono già. E tramite carrozzoni turbolottizzati modello commissione di Vigilanza e Authority per le Comunicazioni. Se Bertinotti è il politico più invitato a Porta a Porta, se nei salotti trash di Masotti e La Rosa non manca mai una folta rappresentanza del centrosinistra, se l'opposizione non è riuscita ad assentarsi nemmeno per un giorno dagli strapuntini della Rai mentre ne venivano cacciati i giornalisti e gli attori liberi, se nei programmi fin qui abbozzati dall'Unione non c'è una parola sulla libertà d'informazione (a parte quelle solitarie di Romano Prodi), se le uniche proteste contro la tv riguardano un mancato invito nel salotto di turno o un sondaggio sgradito, un motivo c'è. E non è, purtroppo, la distrazione. È l'allergia alla libertà, un'allergia paurosamente contagiosa. Come il conflitto d'interessi «epidemico» di cui parla Guido Rossi. Ora gli stessi leader invecchiati di un lustro, messi di fronte agli stessi problemi incancreniti da cinque anni di regime mediatico, tenderanno naturalmente a riprodurre gli stessi comportamenti. Cioè a non fare la legge sul conflitto d'interessi, la legge antitrust, la legge chi libera la tv dal giogo dei partiti. Chi pensa che, appena la sinistra vincerà le elezioni, automaticamente i partiti usciranno da Viale Mazzini con le mani alzate, si illude. Dovranno essere i cittadini a costringerli, pretendendo impegni precisi prima delle elezioni. E, dopo, evitare di sedersi sugli allori, ma vigilare giorno per giorno per evitare che vada a finire come l'altra volta. Mentre si discetta sul pericolo di un «berlusconismo senza Berlusconi», se ne trascura un altro: il berlusconismo di parte del centrosinistra con Berlusconi, sia esso all'opposizione (come nel 1995-2001) o al governo (come dal 2001 a oggi). Perché il Cavaliere anche se dovesse perdere, non se ne andrà a Tahiti né alle Bermuda: resterà come la volta scorsa in Parlamento o - potendo - al Quirinale. Per condizionare la maggioranza (la riforma elettorale serve a garantirgli quantomeno un'ampia minoranza) e salvare un'altra volta la sua roba, seduto su un patrimonio di almeno 10 milioni di euro e - se non cambierà nulla - su tre reti Mediaset e una rete e mezza della Rai. Così, a chiunque tentasse eventualmente di scalfire il suo monopolio incostituzionale, tremerebbero ancora le gambe. E sarebbe inevitabile un nuovo inciucio. Tutti i dibattiti pelosi degli ultimi mesi su «quanto conta la tv nella politica», che di solito si concludono con la risposta «la tv nella politica non conta, infatti Berlusconi ha perso le elezioni europee e regionali», sono finalizzati a questo: a spianare la strada all'ennesimo inciucio, assicurando una congrua «buonuscita» a chi peraltro non ha alcuna intenzione di uscire. Nessuno in possesso delle sue facoltà mentali può davvero pensare che «le tv non contano»: anzi, tutti sanno che contano moltissimo. Contano per dettare l'agenda unica ai cittadini, espellendo gli argomenti scomodi dal teleschermo e dunque dalle nostre teste. Servono per tenere artificialmente in vita partiti e uomini politici che, senza «apparire» in tv, sarebbero già spariti da un pezzo. Servono per premiare i «buoni» e punire i «cattivi». Servono per firmare contratti con gli italiani senza gli italiani, e poi per farli dimenticare quando li si è platealmente traditi. Servono – lo dicono gli esperti veri - a spostare dal 3% (secondo Alessandro Amadori) al 6% (secondo Giovanni Valentini e Renato Mannheimer) dei voti di quei milioni di italiani che s'informano (si fa per dire) soltanto azionando il telecomando, senza mai sfogliare un giornale, leggere un libro, navigare su internet. Se le tv non contassero il Cavaliere, che almeno di tv s'intende, non le terrebbe tutte per sé, non farebbe epurare tutti i personaggi più scomodi, non tenterebbe di smantellare la par condicio.Lui sa bene che, senza le tv, nel '93 non avrebbe nemmeno pensato di fondare un partito e oggi nessuno parlerebbe più di lui. E non avrebbe mai vinto le elezioni del '94 (quando, secondo Luca Ricolfi, la tv influenzò il 10% degli elettori). E nel '96 non avrebbe portato in Parlamento una minoranza così nutrita e minacciosa da poter ricattare, politicamente, l'esigua maggioranza di Prodi. Anche la famosa «Rai dell'Ulivo» era per metà controllata da berlusconiani (Rai1 a Saccà e Vespa, Tg2 a Mimun), oltre a tutta Mediaset, anche se oggi molti smemorati raccontano che «nel 2001 Berlusconi vinse senza le televisioni». Ma quella frase demente - «le tv non contano» - è il ritornello preferito di chi, a destra e a sinistra, spera di perpetuare il sistema anacronistico che consente a pochi eletti (da se medesimi) di continuare a occupare abusivamente la Rai, chiudendosi in una stanza e giocando a Risiko con la nostra libertà. Anche le recenti campagne di alcuni commentatori del «Corriere» e delle maestrine dalla penna rosso-nera come Lucia Annunziata contro il ritorno dei «demonizzatori», dei «radicali», dei «Michael Moore italiani», dei giornalisti e attori di denuncia che «spaventano le classi medie» e «fanno perdere le elezioni alla sinistra» a questo puntano: a livellare la siepe a colpi di cesoie, a segare i rami sporgenti, cioè i pensieri forti e dunque diversi, i personaggi autorevoli e dunque incontrollabili, siano essi di destra, di centro o di sinistra, o magari di nessuna parrocchia. Una guerra preventiva a chi non ha guinzaglio e non accetta bavaglio, perché i soliti quattro gatti possano seguitare a gestire nelle solite quattro stanzette ciò che è pubblico, cioè del pubblico. Perché c'è ancora chi pensa, sovieticamente, che l'informazione e la satira servano a far vincere (o perdere) le elezioni, e non semplicemente a informare, con linguaggi diversi, i cittadini. Per impedire questo, è giusto raccontare e sapere tutto. Scendere fino in fondo al baratro in cui ci hanno sprofondati. Per sapere che bisognerà risalire molto, e con gran fatica. Guai a pensare che l'Italia sia la stessa di cinque anni fa e che quello attuale sia il livello-base dal quale ripartire. Dieci anni fa chi accendeva la televisione - pur lottizzata - poteva trovare in prima serata Biagi e Montanelli, Santoro e Ferrara, Deaglio e Minoli, Riotta e Funari, Feltri e Guzzanti (padre), Zavoli e Augias, Vespa e Beha, Lerner e Annunziata, oltre a quasi tutti i comici oggi desaparecidos. Ce n'era per tutti i gusti. Oggi si dice che la punta più avanzata sia il povero Floris, e il guaio è che forse lo è davvero: il che la dice lunga su come siamo caduti in basso. Fermo restando che dev'esserci spazio per chiunque abbia qualcosa da dire e qualcuno che lo stia ad ascoltare, pensare di «ripartire da Ballarò» sarebbe triste e deprimente. Significherebbe perdere la partita in partenza. Una parte importante dell'opinione pubblica, molto più avanti dei suoi presunti rappresentanti, l'ha capito da un pezzo. Il boom di film come Viva Zapatero! e di programmi come Rockpolitik, ma anche i 4 milioni e mezzo di votanti alle primarie dell'Unione, per citare tre casi recentissimi, indica una gran voglia di partecipazione, di democrazia, di libertà. La censura è già stata sconfitta nella società. Ora bisogna cancellarla dai palazzi del potere. Per non morire berlusconiani, con o senza Berlusconi.
Peter Gomez e Marco Travaglio
LE MILLE BALLE BLU
Detti e contraddetti, bugie e figuracce, promesse e smentite, leggi vergogna e telefonate segrete dell’uomo che da dodici anni prende in giro gli italiani: Napoleone Berlusconi. Vignette di Ellekappa.
È il bugiardo più sincero che ci sia, è il primo a credere alle proprie menzogne. È questo che lo rende così pericoloso. Non ha nessun pudore. Berlusconi non delude mai: quando ti aspetti che dica una scempiaggine, la dice. Ha l’allergia alla verità, una voluttuaria e voluttuosa propensione alle menzogne. “Chiagne e fotte”, dicono a Napoli dei tipi come lui. E si prepara a farlo per cinque anni.
Indro Montanelli, 2001
Un partito di Berlusconi non c’è e non ci sarà mai (13-9-1993)
Io odio andare in tv (26-1-2006)
I give you the salutation of my president of Republic (5-7-2004)
Io sono il Gesù Cristo della politica (13-2-2006)
Dimezzerò i reati in una legislatura (4-12-2000)
Alla Rai non sposterò nemmeno una pianta (29-3-1994)
Ho dato mandato irrevocabile di vendere le mie tv (18-3-1995)
Sono un grande estimatore della magistratura (10-10-1995)
Nesta al Milan? Impossibile (23-8-2002)
Gilardino al Milan? Sarebbe amorale (24-6-2005)
Mai fatto affari con la politica (5-1-2006)
Il primo a non volere la guerra in Irak è Bush (13-3-2003)
Io non ho mai insultato nessuno (10-9-2005)
Lei ha una bella faccia da stronza (a una signora che lo contestava, 24-7-2003).
Premessa
Questa fotografia, che immortala Silvio Berlusconi nel 1978l'anno della sua iscrizione alla loggia P2, non ha bisogno di parole aggiuntive. Come prefazione al nostro libro, ci pare che bastino e avanzino quella faccia un po' così, quella giacca un po' così, quel pollice un po' così, quei polsini un po' così e quel gemello un po' così.
A noi autori, anzi collezionisti di pensieri, parole, opere, lifting, trapianti e soprattutto bugie del premier che speriamo uscente e mai più rientrante, non restano che pochi ringraziamenti. Anzi tutto a Lui, che questo libro l'ha scritto, praticamente da solo, cedendoci gentilmente i diritti d'autore. Ai pochi colleghi che in questi anni hanno condiviso con noi questa insana passione di catalogare tutto quel che Lui diceva, edunque non faceva, o non diceva e dunque faceva. Ma specialmente all'opposizione più ridicola del mondo, che non gli ha mai fatto nemmeno il solletico. E infine ai tanti italiani che, nonostante tutto, hanno continuato a dargli fiducia, perpetuando per 12 anni un incubo che, se fosse dipeso da qualche vecchio saggio come Montanelli, Biagi, Bocca, Sartori, COrdero, Scalfari, Bobbio, Galante Garrone, Sylos Labini, Furio Colombo e pochi altri, non sarebbe durato nemmeno dodici secondi.
Chi avrà voglia di addentrarsi nel gaio museo degli orrori non potrà non porsi una domanda: dove mai, nel mondo, un uomo politico potrebbe permettersi di pronunciare una sola di queste mille balle blu senza doversi dimettere un minuto dopo? Esclusa l'Italia, si capisce.
P.G. e M.T.
Libera Rai in libera Mediaset
Alla Rai non sposterò nemmeno una pianta (29 marzo 1994).
Epurazioni? Non fanno parte della nostra cultura. Tagliare teste? Non ci pensiamo nemmeno (10 aprile 1994).
La satira è il vento della libertà (23 marzo 2001).
Mai mi occuperò di questioni televisive, per non dare l'impressione di voler favorire i miei affari, anzi starò più dalla parte della Rai che della Fininvest (30 maggio 1994).
Due mesi dopo sfiducia il Cda Rai dei "professori" con due anni di anticipo sulla scadenza fissata per legge; poi mette il veto sul nuovo Cda nominato dai presidenti delle Camere Irene Pivetti e Carlo Scognamiglio perché mancano il suo amico Giulio Malgara e Francesco Gentile, il filosofo gradito a Fini; infine impone alla presidenza Rai Letizia Moratti e alla direzione della Sipra l'ex amministratore di Publitalia Antonello Perricone.
Il Cda [dei "professori", nda] dovrebbe dimettersi, lì perdono miliardi e poi ne spendono altri con programmi che fanno propaganda ai comunisti. Io però non posso intervenire perché direbbero che ho un interesse personale (1° giugno 1994).
È certamente anomalo che in uno Stato democratico esista un servizio pubblico televisivo contro la maggioranza che ha espresso il governo del Paese. La Rai è faziosa, è contro il governo che la gente ha voluto, e la gente è d'accordo con me, questa Rai non le piace: me l'ha detto un sondaggio. Il governo se ne occuperà tra breve (7 giugno 1994). Dopo le prevedibili polemiche, Berlusconi fa retromarcia: Sulle mie affermazioni c'è stata disinformazione e molti giornali hanno completamente capovolto la realtà delle mie parole. Mai auspicato una Rai filogovernativa, io la voglio indipendente, autonoma, equilibrata (8 giugno 1994).
C'è da ritenere che, proprio perché proprietario di un gruppo che è in concorrenza con le tre reti Rai, il presidente del Consiglio stia un po' più dalla parte della Rai che della Fininvest (25 giugno 1994).
Il vertice Rai non gode della fiducia del governo. L'esperienza dei "professori" è in via di esaurimento (Giuliano Ferrara, portavoce del premier Berlusconi, 26 giugno 1994).
I professori hanno presentato un piano triennale scandaloso! (Silvio Berlusconi, 28 giugno 1994). Tre giorni dopo il governo licenzia in tronco il Cda Rai con un emendamento al decreto salva-Rai, che prevede la decadenza dei "professori" in caso di bocciatura del piano triennale. Il Cda si dimette.
Fra i nuovi direttori non c'è nessun nome indicato da Forza Italia (18 novembre 1994). Ma c'è chi lo smentisce in tempo reale:
Se le faccio vedere il bigliettino che qualche tempo fa ho scritto sulla Rai per il Big Boss [Berlusconi, nda], scoprirà che quattro nomi su cinque siamo riusciti a portarli: Rossella, Angelini, Mimun e Vigorelli. Solo su Beha è andata male, per colpa della Lega... Comunque la Lega se l'è voluta, ha pagato il suo modo di fare (Fabrizio Del Noce, deputato di Forza Italia, La Stampa, 18 novembre 1994).
In Rai c'è un clima da soviet, ma se non passerà la disinformatja vinceremo noi (4 marzo 1995).
Un terzo polo televisivo sarebbe una disgrazia (4 maggio 1995).
Silvio Berlusconi. Santoro, complimenti a questi processi in diretta, siamo allibiti per come la Rai usi le trasmissioni di informazione politica per fare dei processi che invece si devono svolgere nelle aule dei tribunali... Michele Santoro. No, no scusi, così no... Berlusconi. Posso anche smettere subito se lei continua... Santoro. Lei non può attaccare la Rai, se lei continua chiudo il collegamento telefonico. Berlusconi. Lei è un dipendente del servizio pubblico, si contenga! Santoro. Del servizio pubblico, ma non suo, appunto! (telefonata in diretta a "Il raggio verde", 17 marzo 2001).
Due reti Rai saranno vendute e una continuerà a garantire il servizio pubblico (La Stampa, 11 maggio 2001). Naturalmente Berlusconi si guarderà bene dal venderne anche una sola, onde evitare l'affacciarsi di concorrenti privati nel suo monopolio.
La Rai è ancora nelle mani della sinistra. Noi vogliamo una televisione pubblica obiettiva, equilibrata. Come le mie televisioni private (25 gennaio 2002).
Dalla vicenda Rai mi tengo rigorosamente fuori. Il compito delle nomine spetta ai presidenti di Camera e Senato. Non leggo neppure gli articoli, guardo solo i titoli, con tutte le candidature possibili e immaginabili. Non voglio parlare di questo tema di cui sono responsabili i presidenti delle Camere (Ansa, 5 febbraio 2002). Poi comincia subito a parlarne, dettando le sue liste di prescrizione.
Il modo in cui è stata gestita la tv pubblica durante le precedenti elezioni è stato scandaloso. C'è stata una sorta di killeraggio politico della tv pubblica gestito da una parte politica nei confronti dell'opposizione e del suo leader. Mai nella storia della Repubblica si era verificato che la tv pubblica si facesse arma contro una parte politica. Si è andati contro la mia immagine con una serie di trasmissioni, come quelle di Luttazzi, Santoro e Biagi, che hanno portato alla discesa, dal 64 al 47%, del mio gradimento personale presso l'opinione pubblica. La tv pubblica è stata gestita come una clava. Ma questo non accadrà più, il centrodestra garantirà una tv pubblica super partes e un'informazione equilibrata e oggettiva senza privilegiare una parte o penalizzarne un'altra. Sulla questione delle nomine Rai voglio restare fuori: sono sicuro del senso di responsabilità dei presidenti di Camera e Senato: indicheranno un Cda che garantirà una televisione pubblica equilibrata (al vertice internazionale di Caceres, in Spagna, Ansa, 8 febbraio 2002).
Non ci sarà un Santoro di centrodestra, non ci sarà un Biagi di centrodestra, non ci sarà un Travaglio di centrodestra, perché il centrodestra ha davvero un'anima liberale e non si avvicinerà mai neppure lontanamente all'utilizzo della tv pubblica che è stato fatto in maniera scandalosa e antidemocratica dalla sinistra al potere nella Rai. Secondo Datamedia, la campagna elettorale mi aveva portato ad acquisire, oltre allo zoccolo duro di consensi che avevo sempre avuto, anche una fascia importante di incerti, che era arrivata al 64%. Qui cominciò l'offensiva della Rai di Zaccaria, con i suoi Travaglio, i suoi Santoro, i suoi Biagi, con tutta quella falsa satira che invece era un'azione volta a demolire l'immagine del leader dell'opposizione. Guardate che cosa è successo: la prima settimana c'è stata una discesa di 6,5 punti, 3,5 la seconda, poi addirittura 5 punti nelle due settimane successive, fino ad arrivare al 47% il giorno precedente le elezioni, che poi vincemmo con il 49,4%, cui va aggiunto lo 0,4% della lista che era stata fatta per le regole della legge elettorale. Abbiamo vinto con la larga maggioranza che ci ritroviamo oggi alla Camera e al Senato, e immediatamente dopo ecco il ritorno al 65,2%, poi al 68% e nell'ultimo sondaggio addirittura al 70%. Che cosa è successo? Questa parte di elettori e di cittadini italiani sentendo affermare certe cose in tv ha ritenuto che fossero cose vere: se poi queste cose vengono ripetute, sono ritenute addirittura incontrovertibili. Non lo dico io, è stato un pm certamente non favorevole a me che ha fatto questa affermazione. Immediatamente dopo invece si sono detti: ma allora queste erano fandonie, erano false accuse, non era stato Berlusconi il mandante di assassini, omicidi, di tutto ciò che si era fatto credere attraverso l'autorevolezza della rete pubblica. Quello che voglio affermare è che il centrodestra non farà mai un attentato alla democrazia come quello che è stato messo in atto dalla Rai del centrosinistra (ancora dal vertice di Caceres, Ansa, 9 febbraio 2002).
Peccato che, un anno prima, dopo la messa in onda dei programmi "incriminati", Berlusconi - sempre citando Datamedia - avesse fornito dati esattamente opposti: aveva infatti sostenuto che il solo "Satyricon" gli aveva fatto guadagnare 5 punti percentuali, con un balzo dal 53 al 58% in pochi giorni. E Dell'Utri aveva ringraziato i "demonizzatori" con queste parole: "Mi hanno fatto una grande campagna pubblicitaria. La demonizzazione a cui sono stato sottoposto ha fatto scattare una molla in tante persone, anche di sinistra".
Io mi tengo fuori dalla questione Rai ed è una novità, un fatto nuovo che il governo si tenga fuori (Corriere della Sera, 10 febbraio 2002).
Il presidente Berlusconi non è intervenuto, non sta intervenendo e non interverrà nella vicenda Rai (Paolo Bonaiuti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Ansa, 18 febbraio 2002).
Io non ho cambiato posizione, mi tengo fuori da questa vicenda della Rai. Ma l'altra sera mi sono permesso di dire a Fini che, se sente Casini, gli dica di non perdere tempo dopo il voto in commissione sulla legge per il conflitto di interessi, per far sì che non si inizi o continui una telenovela (Silvio Berlusconi, Corriere della Sera, 20 febbraio 2002) Io non ho cambiato posizione, mi tengo fuori da questa vicenda della Rai. Ma l'altra sera mi sono permesso di dire a Fini che, se sente Casini, gli dica di non perdere tempo dopo il voto in commissione sulla legge per il conflitto di interessi, per far sì che non si inizi o continui una telenovela (Silvio Berlusconi, Corriere della Sera, 20 febbraio 2002) Due giorni dopo, il 22 febbraio, Casini e Pera obbediscono e nominano un Cda Rai di stretta osservanza berlusconiana: Antonio Baldassarre (FI-An), Ettore Albertoni (Lega), Marco Staderini (Udc), Luigi Zanda (Margherita) e Carmine Donzelli (Ds). Nuovo direttore generale: l'ex direttore di Rai1 Agostino Saccà, che ha appena dichiarato di votare Forza Italia "con tutta la mia famiglia". Il neopresidente Baldassarre, intimo di Previti, promette comicamente: "È una svolta storica, terremo i partiti fuori dalla Rai". Infatti... Solo fra qualche settimana alla Rai ci sarà qualche cambiamento e - dobbiamo esserne tutti orgogliosi - non ci saranno mai un Biagi, un Luttazzi, un Santoro di centrodestra che attaccheranno la sinistra. Noi non useremo mai in modo criminoso la televisione pubblica pagata con i soldi di tutti (Silvio Berlusconi al congresso di An a Bologna, 5 aprile 2002).
Le nomine Rai? Io me ne sto fuori e faccio bene. Il governo ne sta fuori. Non ne voglio sapere nulla (Ansa, 12 aprile 2002).
In questi giorni la Rai ha cambiato i responsabili dei tg e delle reti. Tornerà finalmente a essere una tv pubblica, cioè di tutti, cioè oggettiva, cioè non partitica, cioè non faziosa come è stata con l'occupazione manu militari da parte della sinistra. L'uso che i Biagi, i Santoro e i... come si chiama quello là... ah sì, Luttazzi, hanno fatto della televisione pubblica, pagata con i soldi di tutti, è stato criminoso. Preciso dovere della nuova dirigenza Rai è di non permettere più che questo avvenga. Ove cambiassero, nulla ad personam. Ma siccome non cambieranno... (conferenza stampa a Sofia, 18 aprile 2002).
Verrà prontamente esaudito. Intanto la Cdl occupa pure gran parte delle direzioni di reti e tg: Del Noce (FI) a Rai1, Clemente J. Mimun (FI) al Tg1, Antonio Marano (Lega) a Rai2, Mauro Mazza (An) al Tg2, Angela Buttiglione (Udc) ai tg regionali, Sergio Valzania (Udc) a Radio Due e Tre. In seguito, Berlusconi, negherà spudoratamente di avere ordinato l'epurazione di Biagi, Santoro e Luttazzi.
Ma vede, Vespa, in Bulgaria... si stava ridendo e scherzando con gli imprenditori lietissimi che finalmente il governo italiano fosse lì a sostenere il loro ruolo in Bulgaria. Non era prevista la presenza dei giornalisti. Poi invece entrarono i cronisti, senza che nessuno ci avesse avvisato. Davanti ai giornalisti mi sarei attenuto assolutamente a un linguaggio ufficiale, perché c'è sempre lo stravolgimento di quello che dico (a "Porta a Porta", 31 marzo 2005).
Biagi e Santoro non volevo allontanarli. Non sono stato io a penalizzare questi signori, ma l'Autorità preposta alla verifica della par condicio (a "Otto e mezzo", 9 gennaio 2006). Non dice quale Autorità, anche perché nessuna autorità ha mai sanzionato né Biagi né Santoro per violazione della par condicio.
La Rai? Io mi tengo fuori dalla vicenda e voglio continuare a farlo (Adnkronos, 5 dicembre 2002). Poi riceve i vertici Rai nella sua residenza privata romana a Palazzo Grazioli. E, quando la sinistra protesta, risponde:
Ma quale conflitto d'interessi! Vadano a dire queste cose a un resuscitato "Drive in"! (28 febbraio 2003).
Spero che la prossima settimana si possa concludere con le nomine Rai. Petruccioli presidente? Perché no? (27 maggio 2005).
Il premier Berlusconi mi ha chiamato e mi ha detto: "Professore, lei è sempre stato al servizio del Paese, adesso è al Paese che deve dare un ultimo contributo e assumere la presidenza della Rai". E, nonostante le mie perplessità, ho dovuto dare la mia disponibilità... La cosa è stata mal gestita. Sono molto contrariato. Gianni Letta e soprattutto Berlusconi certe cose le dovrebbero sapere. E le dovrebbero saper fare (Andrea Monorchio, appena indicato da Berlusconi come presidente della Rai, ma bocciato dall'opposizione, La Stampa, 2 giugno 2005).
Andrea Monorchio sarebbe andato benissimo come presidente della Rai, anche in vista della privatizzazione della tv pubblica... Io pensavo a Petruccioli come presidente, ci si può ripensare se tutto il centrosinistra è d'accordo. Altrimenti niente (Silvio Berlusconi, 2 giugno 2005). Infatti il 27 luglio il ds Claudio Petruccioli diventa presidente della Rai dopo una visita a Palazzo Grazioli, residenza privata del presidente del Consiglio nonché proprietario di Mediaset. Il quale però non è ancora soddisfatto e allunga la lista bulgara.
Non c'era bisogno di Adriano Celentano per avere ventate di libertà in televisione. Basta guardare ogni giorno i canali Rai per vedere battute contro il presidente del Consiglio da parte di Serena Dandini e Sabina Guzzanti, Gene Gnocchi ed Enrico Bertolino, Dario Vergassola, Corrado Guzzanti e altri che cerco di non tenere a mente. Oltre, è ovvio, a "Rockpolitik". Quello di giovedì 20 ottobre è soltanto l'ultimo episodio di un sistema della comunicazione, televisione ma anche stampa, che dal 2001 ha sistematicamente attaccato l'operato del governo e il presidente del Consiglio (a proposito di Adriano Celentano che ha invitato Michele Santoro a "Rockpolitik" e ha denunciato le censure e le epurazioni berlusconiane alla Rai, 23 ottobre 2005).
La Rai è una vera e propria macchina da guerra contro di me. E anche le mie televisioni mi remano contro (Corriere della Sera, 28 gennaio 2006).«Che i pregiudicati mi rappresentino in Parlamento e che siano pure pagati con le mie tasse non l’ho mai mandato giù. Le Camere sembrano comunità di recupero. Un nuovo Inferno di Dante con i suoi gironi o meglio il Paradiso dei delinquenti, dei prescritti, degli imputati e degli indagati. Gente che fa le leggi dopo averle violate, o mentre le viola, o prima di violarle. La via giudiziaria alla politica…» Beppe Grillo
dal sito www.marcotravaglio.it
RECENSIONE DE LA REPUBBLICA - formato .pdf
A furia di parlare di «quote rosa», si rischia di trascurare una rappresentanza parlamentare ben più rappresentativa, o ben più rappresentata: quella degli eletti nei guai con la giustizia. Le «quote marron».
Il nuovo Parlamento (italiano ed europeo) conta già:
25 condannati definitivi,
8 condannati in primo grado,
17 imputati,
19 indagati,
10 prescritti,
più un pugno di miracolati dall'immunità, da leggi vergogna e da giudici distratti.
Il totale è di 82, di cui 65 di centrodestra e 17 di centrosinistra. Il primo contribuente alle quote marron è Forza Italia, con 29 eletti; seguono An con 14, Udc con 10, Lega Nord con 8, e in fondo Dc, Psi e Movimento per l'autonomia con 1 per ciascuno. Nell'Unione svettano Ds e Margherita (6 più 6), seguiti a distanza da Udeur e Rifondazione (2 più 2) e Rosa nel pugno (1).
Un campionario di reati «comuni», perlopiù senz'attinenza alcuna con la politica .
Vince la classifica dei delitti preferiti dai parlamentari
la corruzione (18 casi), tallonata da finanziamento illecito (16),
truffa (10), abuso d'ufficio e falso (9), associazione mafiosa (8), bancarotta fraudolenta e turbativa d'asta (7), associazione per delinquere, falso in bilancio e resistenza pubblico ufficiale (6), attentato alla Costituzione e all'unità dello Stato e costituzione di struttura paramilitare fuorilegge (5), concussione, favoreggiamento e frode fiscale (4), diffamazione, abuso edilizio e lesioni (3); poi, a quota 2, banda armata, corruzione giudiziaria, peculato, estorsione, rivelazione di segreti. Fanalini di coda, con un solo caso per ciascuno: omicidio, associazione sovversiva, favoreggiamento mafioso, aggiotaggio, percosse, istigazione a delinquere, incendio, calunnia, voto di scambio, fabbricazione di esplosivi, plagio e persino adulterazione di vini.
Su 900 e rotti parlamentari, i «diversamente onesti» accertati o sospettati sono una novantina. Uno su dieci. Una percentuale di devianza criminale che non si riscontra nemmeno nelle più disagiate periferie metropolitane . Chi avvistasse un poliziotto di quartiere, è pregato di condurlo al più presto alla Camera e al Senato.
Prefazione di Beppe Grillo
Che dei pregiudicati mi rappresentino in Parlamento e che siano pure pagati con le mie tasse, non l’ho mai mandato giú. Estorsori, truffatori, evasori, mentitori, calunniatori. Il Parlamento è il nuovo Inferno di Dante con i suoi gironi, o meglio è il Paradiso dei delinquenti, dei prescritti, dei giudicati in primo e secondo grado in attesa di sentenza definitiva, degli indagati. Gente che fa le leggi dopo averle violate, o mentre le viola, o prima di violarle. È la via giudiziaria alla politica. Il Parlamento ridotto a comunità di recupero.
Ho provato a mandarli a casa con l’aiuto della Rete. Con l’iniziativa «Onorevoli Wanted». Ho pubblicato nomi-cognomi-reato dei parlamentari sul mio blog www.beppegrillo.it. Ho raccolto 60.000 euro grazie alle offerte dei lettori del blog per comprare una pagina su un quotidiano e denunciare questa situazione unica al mondo. Ho ricevuto il rifiuto degli editori italiani e di molte testate internazionali.
Dopo mesi di tentativi, ho finalmente pubblicato la lista sull’Herald Tribune. Ne hanno parlato la Bbc e giornali australiani e indiani. La Gandhi Peace Foundation, una tra le piú importanti organizzazioni nel mondo per la difesa dei diritti civili, mi ha citato e mi ha inviato una lettera: «Nel nostro Parlamento abbiamo scoperto 16 pregiudicati di cui alleghiamo le fotografie, ma li abbiamo subito cacciati via a calci nel sedere». Che, per dei non-violenti gandhiani, non è male. Dall’Uzbekistan mi hanno fatto sapere che il loro Parlamento arriva al massimo a 18 condannati: 25 parevano troppi anche a loro.
Tutti i giornali italiani hanno dovuto scrivere dell’iniziativa. Ma i parlamentari condannati sono ancora là, a ingrassarsi con i nostri soldi, a farsi chiamare onorevoli dal popolo piú servile del mondo.
Anche loro, però, hanno una funzione sociale e un lato positivo. Quello di provocare scandalo e di far vendere libri a chi gli scandali li smaschera e li racconta, come gli ottimi Gomez e Travaglio con questo loro «Onorevoli Wanted».
Introduzione
di Peter Gomez e Marco Travaglio
Nel 79 dopo Cristo l’eruzione del Vesuvio sommerge Pompei in piena campagna elettorale. Ancor oggi, sui muri della città pietrificata dalla lava, si possono leggere, perfettamente conservati, gli slogan di quella vigilia del voto. «Vi prego di eleggere Lucio Rusticelio Celere, è degno della municipalità». «Geniale invita a votare Bruttio Balbo, conserverà la cassa municipale». «Vi prego di eleggere Giulio Polibio edile, fa del buon pane». Cose cosí. Del resto, l’etimologia della parola «candidato» deriva dalla veste bianchissima indossata dal cittadino che si presentava al popolo per farsi eleggere a una carica pubblica. La «candida». Immacolata. Simbolo di innocenza, di purezza, di pulizia, di sincerità. Nella politica italiana di oggi, la candida è andata fuori moda. E anche il suo colore. A furia di parlare di «quote rosa», si rischia di trascurare una rappresentanza parlamentare ben piú rappresentativa, o ben piú rappresentata: quella degli eletti nei guai con la giustizia. Le «quote marron». I «diversamente onesti». Nella scorsa legislatura, fra Camera, Senato e Parlamento europeo, i soli pregiudicati erano 25, senza contare i condannati in primo e/o secondo grado, gli imputati rinviati a giudizio, gli indagati e i miracolati da prescrizioni, amnistie e leggi salvaladri. Nella nuova legislatura, fra conferme, bocciature e new entry, abbiamo mantenuto la quota di 25 condannati definitivi, piú 57 esponenti delle altre categorie penali: totale 82, ai quali vanno aggiunti i politici che prendevano soldi da Parmalat e che – come vedremo – incredibilmente non sono stati chiamati a risponderne (salvo un paio di eccezioni). Il che significa che, su 900 e rotti parlamentari, una novantina ha seri problemi con la legge. Uno su dieci. E la percentuale del 10 per cento è decisamente eccessiva anche per le aree piú disagiate del paese. Non esiste quartiere a rischio, o periferia metropolitana in cui un abitante su dieci sia stato condannato o sotto processo. In Parlamento sí, tant’è che forse varrebbe la pena dirottare i presunti «poliziotti di quartiere» lontano da quelle zone ingiustamente screditate, per impiegarli piú utilmente al pattugliamento delle aule parlamentari, dove statisticamente si rileva la presenza piú massiccia di devianza criminale.
Un tempo i condannati si dedicavano a lavori socialmente utili, come intrecciare cestini di vimini, per reinserirsi nella società. In Italia, da un certo censo in su, i condannati entrano in Parlamento. Una condanna, provvisoria o meglio ancora definitiva, ma anche un rinvio a giudizio, e persino un avviso di garanzia, fanno curriculum.
Il tutto in un paese dove chi ha un parente condannato non può fare il carabiniere. E chi è condannato in proprio non può fare il vigile urbano né il segretario comunale. Ma il parlamentare sí. Appena un facchino dell’aeroporto di Linate viene sospettato di metter le mani nei bagagli dei viaggiatori, o un dipendente dell’Anas finisce sotto inchiesta per qualche irregolarità, le rispettive società giustamente lo licenziano in tronco. Ma se sotto inchiesta o sotto processo ci finiscono i dirigenti delle società medesime, allora scatta il garantismo selettivo: presunzione d’innocenza fino alla sentenza di Cassazione, e poi di solito non accade nulla nemmeno quando questa arriva. Ogni anno la Corte dei conti segnala la presenza, nelle amministrazioni dei vari ministeri, di centinaia di condannati (non solo per reati contro la Pubblica amministrazione, ma anche per violenza sessuale e per pedofilia) e non c’è verso di mandarli a casa. Idem per il Parlamento: chi corrompe i giudici o aiuta la mafia o incassa tangenti a tutto spiano e poi (ma anche prima) ha l’accortezza di rifugiarsi in una delle due Camere, diventa intoccabile. Come i furfanti nelle chiese e nei conventi del Medioevo. La legge proibisce ai condannati a pene complessivamente superiori a 2 anni per delitti contro la Pubblica amministrazione di candidarsi nei consigli comunali, provinciali e regionali; e prevede la sospensione degli eletti nei tre enti locali in caso di condanna al primo grado, e la loro decadenza in caso di condanna passata in giudicato. La regola, però, non vale per i parlamentari, per i ministri, per i presidenti del Consiglio. Una strana dimenticanza che ha una sola spiegazione: le leggi non le fanno i consigli comunali, provinciali e regionali. Le fa il Parlamento. Cosí i condannati che non possono piú metter piede negli enti locali trasmigrano alla Camera, al Senato, al Governo e all’Europarlamento. Lí si può tutto. Non si butta via niente.
Spesso ci raccontano che «abbiamo la classe politica che ci meritiamo». Può darsi che sia cosí, anche se le elezioni dovrebbero servire a selezionare il meglio che c’è in giro, non il peggio. Altrimenti i parlamentari, anziché eleggerli con gran dispendio di denaro e di energie, tanto varrebbe sorteggiarli. Cosí, in un paese che ha tre regioni e mezza controllate dalla criminalità organizzata, verrebbe garantita un’adeguata rappresentanza anche alla mafia, alla camorra, alla ’ndrangheta, alla Sacra corona unita. Senza contare altri fenomeni criminali di un certo peso: pedofilia, stupri, furti, scippi, rapine, traffici di droga, di armi, di carne umana, terrorismo e cosí via. Ma forse la democrazia non è questo. Non è neppure andare a votare a scadenze piú o meno regolari. Democrazia è votare sapendo tutto di chi ci chiede il voto. In Italia, per i noti fattori che inquinano l’informazione, soprattutto televisiva, questo è impensabile. E la nuova legge elettorale (proporzionale senza preferenza) ha di gran lunga peggiorato le cose, espropriando gli elettori del diritto di scelta. I cosiddetti «eletti» vengono in realtà nominati a tavolino dai segretari di partito, che decidono chi andrà in Parlamento e chi no a seconda dell’ordine in cui i singoli candidati vengono inseriti nelle liste. Il tutto ben prima che il presunto «popolo sovrano» si rechi alle urne: in quel momento ormai i giochi sono fatti, e all’elettore non resta che vidimare con il suo voto una scelta fatta da altri, altrove, in precedenza, in base a criteri piú o meno imperscrutabili. Il candidato in pole position non ha alcun motivo per incontrare i suoi potenziali elettori e per convincerli a votarlo, visto che ha già la poltrona assicurata. Quello in mezzo o al fondo della lista, idem: ha la bocciatura assicurata. Cosí le liste diventano inutili crittogrammi che si possono tranquillamente dare per letti: l’elettore infatti non ha alcuna possibilità di premiare il candidato meritevole e di punire il non meritevole. Si sceglie la lista, a scatola chiusa.
Del resto nessuno può sapere chi sono, che storia hanno, che cosa han fatto o non fatto i personaggi che compaiono negli elenchi. Per scoprire quante liste, per dire, non contengono condannati o indagati, bisogna connettersi con il blog di Beppe Grillo. O andare a vedere uno spettacolo di Daniele Luttazzi o di Sabina Guzzanti. Insomma rivolgersi ai comici, gli unici rimasti a parlare di cose serie in Italia. Maurizio Crozza, altro comico, ha chiesto che la scheda elettorale contenga, come il menu dei ristoranti per il pesce surgelato, un asterisco di fianco ai candidati nei guai con la giustizia e un rimando a piè di pagina con le imputazioni complete. In attesa che venga varata la sacrosanta (e dunque impossibile) riforma, abbiamo pensato di provvedere noi con questo libro. Le informazioni che contiene non si trovano, purtroppo, nella «Navicella», la raccolta delle biografie ufficiali dei nostri parlamentari. Per le «quote marron» occorre una contro-Navicella, che abbiamo intitolato «Onorevoli Wanted». Oltre ai condannati e ai prescritti definitivi, la cui posizione giudiziaria non potrà piú mutare, abbiamo inserito anche i condannati provvisori, i rinviati a giudizio e i semplici indagati: questi, da un momento all’altro, potrebbero pure essere assolti, o prosciolti, o archiviati, o a loro volta prescritti. E, a questo proposito, tre avvertenze s’impongono. Primo. Prescrizione non è sinonimo di assoluzione, anzi è il contrario: quando il giudice prescrive il reato, vuol dire che il reato c’è stato e l’indagato l’ha commesso, ma non può piú essere sanzionato. Il prescritto, dunque, non è un innocente: è un colpevole miracolato. E chi non vuole uscire dal processo con la scappatoia della prescrizione può rinunciarvi (come del resto all’amnistia) e chiedere di essere processato e assolto nel merito. Ma, per farlo, conviene essere innocenti.
Secondo. I lettori troveranno una bella galleria di personaggi e un variopinto campionario di reati, quasi tutti estranei all’attività politico-parlamentare. Il solo delitto che abbiamo tenuto fuori dalla lista degli indagati è la diffamazione, anche se non sempre attiene alla sfera delle opinioni (e in ogni caso è giusto che il parlamentare che ha infamato un cittadino venga processato senz’alcuna immunità o insindacabilità). Ci siamo concessi però un’eccezione: quella del senatore Lino Jannuzzi, che della diffamazione dei migliori magistrati d’Italia ha ormai fatto una professione; e quella dell’onorevole Giovanni Mauro, che a una condanna definitiva per diffamazione aggiunge tre condanne in primo grado per delitti ben piú gravi.
Terzo. Il fatto di comparire in questo libro non significa essere colpevoli. Significa semplicemente che, al momento dell’elezione, queste persone avevano sulle spalle quantomeno un pesante sospetto di aver violato la legge. Una condizione che, in un qualunque altro paese civile, ne avrebbe impedito o sconsigliato la candidatura e l’elezione. Nei paesi civili, infatti, chi finisce sotto inchiesta abbandona la politica, o almeno la carica che ricopre, in attesa di chiarire la sua posizione dinanzi alla legge. Se poi la chiarisce, dopo essersi difeso con le nude mani, senza coinvolgere il partito o le istituzioni che rappresenta, ritorna in campo. Altrimenti se ne resta a casa, o eventualmente in carcere. In Parlamento, meglio di no. Il Parlamento come alternativa all’ora d’aria non è un bello spettacolo. Non c’è nulla di peggio che vedere le Camere messe all’asta al miglior offerente (dal caso Parmalat al caso Fiorani-Fazio, dalle leggi-vergogna di Berlusconi & C. ai tanti scandali di Tangentopoli) per ottenere leggi su misura. Parafrasando una fortunata campagna della nettezza urbana a Milano, «il Parlamento è anche tuo: aiutaci a tenerlo pulito».
Appello degli Onorevoli Wanted
LA BANDA BERLUSCONI
Silvio Berlusconi Il Cavalier Prescrizioni
Cesare Previti Se lo conosci lo Previti
Marcello Dell’Utri Cavalli e stalliere, cavilli e Cavaliere
Massimo Maria Berutti Ufficiale poco gentiluomo
Aldo Brancher L’uomo che visse tre volte
Romano Comincioli Una vita per il Cavaliere
COMPAGNI CHE SBAGLIANO
Massimo D’Alema Invito a cena con bustarella (SCU)
Cesare De Piccoli Il compagno Fiat
Vladimiro Crisafulli L’amico del boss
Vincenzo De Luca Il moralizzatore moralizzato
Vincenzo Visco Compagno con vista mare (abusiva)
Andrea De Simone Il sociologo e la strada-fantasma
MARGHERITA APPASSITA
Enzo Carra Il ventriloquo dell’omertà
Pierluigi Castagnetti Per un pugno di spiccioli
Luigi Cocilovo La tangente assolta per legge
Ciriaco De Mita Il dinosauro granturismo
Andrea Rigoni Villa (abusiva) vista carcere
Romolo Benvenuto Giochi di mano, giochi di villano
CAMERATI CHE SBAGLIANO
Ugo Martinat Tav: trucchi ad alta velocità
Altero Matteoli Il ministro che sapeva troppo
Silvano Moffa La fiamma nera della fornace
Domenico Nania Camerata abusivo, presente!
Vincenzo Nespoli Quello della coop nera
Francesco Proietti Cosimi Il socio di Lady Fini
Francesco Storace Ciccio contro Qui, Quo e Qua
Giuseppe Valentino L’avvocato che parla troppo
Gianni Alemanno Per un cartoccio di latte
Carmelo Briguglio L’imputato peripatetico
Antonio Buonfiglio Onorevole a credito
Giuseppe Consolo L’onorevole copione
Riccardo De Corato Il nero in bianco
Marcello De Angelis Terza Posizione, ottima sistemazione
PADANIA PENALE
Umberto Bossi Padania ladrona, la Lega ti perdona
Mario Borghezio Il piromane verde
Matteo Brigandì Procuratore o truffatore?
Roberto Calderoli Il dentista ri-costituente
Davide Caparini La piccola vendetta lombarda
Roberto Castelli Disgrazia e Ingiustizia
Roberto Maroni L’eroe della resistenza (alla polizia)
Francesco Speroni Il leghista invulnerabile
UDC: IO C’ENTRO
Lorenzo Cesa Gambadilegno in salsa Dc
Salvatore Cuffaro Un Salvatore mezzo salvato
Francesco Saverio Romano L’ombra di Totò
Caloggero Mannino Il piccolo Andreotti
Vittorio Adolfo Salvo appena in tempo
Vito Bonsignore Il pregiudicato da esportazione
Gianpiero Carone Pannolini e miliardoni
Aldo Patriciello L’eurocondonato da esportazione
Teresio Delfino In vino veritas
Giuseppe Drago La cassa delle libertà
LA BANDA TANGENTOPOLI
Gianpiero Cantoni (Fi) Il banchiere bancarottiere
Paolo Cirino Pomicino (Dc) Mazzette alla pummarola
Gianni De Michelis (Psi) L’avanzo di balera
Giorgio La Malfa (Fi) Avvinto (ai milioni) come l’Edera
Antonio Del Pennino (Fi) Patteggiate, qualcosa resterà
Egidio Sterpa (Fi) Il giornalista multiuso
Alfredo Vito (Fi) Mister Cinque Per Cento
Carlo Vizzini (Fi) Miracolato e riciclato
IL RESTO DELLE QUOTE MARRON
Gabriele Albertini (Fi) Un sindaco in bianco
Giulio Andreotti (Gruppo Misto) Il prescritto a vita
Alfredo Biondi (Fi) Un ministro evasivo
Franco Brusco (Fi) L’uomo della tangenziale-fantasma
Francesco Caruso (Rc) Il disobbediente che non obbedisce
Stefano Cusumano (Udeur) L’imputato capogruppo
Sergio D’Elia (Rosa nel pugno) Il mitra nel pugno
Paolo del Mese (Udeur) Un onorevole poco potabile
Roberto di Mauro (Mpa) Com’era grigia la sua valle
Daniele Farina (Rc) L’uomo giusto al posto sbagliato
Giuseppe Firrarello (Fi) Forza Garibaldi
Raffaele Fitto (Fi) Il detenuto in Parlamento
Pietro Franzoso (Fi) Voto di scambio, scambio di persona
Franco Antonio Girfatti (Fi) Due arresti, due elezioni
Gaspare Giudice (Fi) Il Giudice che piace al Cavaliere
Luigi Grillo (Fi) Il fazista da combattimento
Lino Jannuzzi (Fi) Senatore per grazia ricevuta
Franco Malvano (Fi) Il questore indagato
Giovanni Mauro (Fi) Quattro condanne, due elezioni
Pasquale Nessa (Fi) Arrestato? No senatore
Gaetano Pecorella (Fi) L’avvocato tuttofare
Roberto Tortoli (Fi) Il deputato multisala
Denis Verdini (Fi) L’onorevole Lingualunga
Antonino Miceli
Io, il fu Nino Miceli
Editore: Edizioni Biografiche
Gela, fine Anni Novanta. Un onesto commerciante, che ama il suo lavoro e che si sta costruendo un futuro con le sue forze, riceve i primi avvertimenti: gente strana gli gira intorno, “uno che conta” lo vuole incontrare...Poi cominciano i roghi, le minacce, la paura, lo sfinimento. Comincia la guerra. Guerra di un uomo contro la mafia.
L’autore, Antonino Miceli, è nato a Realmonte, provincia di Agrigento, il 16 dicembre 1946.
È morto per lo Stato e per la società il giorno 10 maggio 1996.
In quella data è nato un altro uomo il cui nome non sappiamo né dobbiamo sapere.
Questo libro ci dice il perché.
È la storia vera, verissima, narrata in prima persona dal protagonista, di una fiera e alla fine vittoriosa battaglia contro il sistema del “pizzo” che ha contribuito alla promulgazione di leggi finalmente adatte a contrastare efficacemente il fenomeno. È anche il duro resoconto del coraggio che bisogna avere per combattere questa battaglia e del prezzo che bisogna pagare per vincerla, ma è anche l’immensa soddisfazione civile e umana per cui quel prezzo si è pagato.
Una storia avvincente; un manuale di vita. Un libro che aiuta a resistere.
La prefazione di TANO GRASSO in formato pdf - clicca qui
dal sito Il Carabiniere > Anno 2007 > Aprile > Società
Il coraggio di sfidare la mafia
Intervista al "fu" Nino Miceli, un uomo che ha sfidato le cosche di Gela denunciando il pizzo praticato da Cosa Nostra e dalla stidda
A testa alta. Ci sono infiniti modi per affrontare le difficoltà della vita, tanti quante sono le persone su questa Terra. Ci sono molti modi per fare il mestiere di carabiniere.
Questa è la storia di un imprenditore che ha deciso di reagire con coraggio ad una sfida terribile, a qualunque costo. Ed è la storia di carabinieri che hanno scelto di indossare l'uniforme più bella che abbiamo: quella di chi fa il proprio dovere fino in fondo.
I fatti. Gela, 1990. Nino Miceli, è il titolare del locale autosalone Lancia Autobianchi. Originario di Realmonte in provincia di Agrigento, sposato, due figli, è fra i più giovani concessionari della Sicilia, ma la sua attività abbraccia un vasto territorio: buona parte della provincia di Caltanissetta, Licata nell'agrigentino, Vittoria nel ragusano.
Il calvario inizia in un giorno di aprile, quando presso l'esercizio, accompagnato da un ex dipendente del Miceli, si presenta il capomafia del paese. La prima richiesta è lo sconto sul prezzo di un'autovettura, a cui si aggiunge la pretesa di un'ulteriore detrazione di parte della somma, in cambio di un'auto usata di nessun valore commerciale, buona ormai per la rottamazione. Miceli rifiuta quest'ultima imposizione, e si sente rispondere: «Ma tu lo sai chi sono io?».
La notte del 30 aprile, l'autosalone è dato alle fiamme. Il danno è ingente: duecento milioni di vecchie lire, all'epoca una fortuna. Mentre l'incendio è domato, l'uomo ha il suo primo incontro con l'Arma dei Carabinieri. Ha il volto di un tenente che lo scruta come se volesse entrare nella sua mente e leggerne i pensieri. Sente quegli occhi addosso. L'immagine, ancora viva nella sua mente, avrà per lui un peso notevole molto tempo dopo.
Miceli non si arrende. Inizia subito a ricostruire le strutture danneggiate: il colpo è forte ma si può ancora ripartire. Il lavoro riprende. Tutto tace fino al luglio successivo, quando arriva una telefonata da parte dei carabinieri. Il militare che lo chiama lo tranquillizza subito. Nulla di grave. Una bottiglia piena di liquido infiammabile è stata lanciata contro una serranda laterale del suo negozio. Qualche milione di danno. Ma Miceli, che in tutto quel tempo si è interrogato sul precedente e più grave episodio, capisce perfettamente il messaggio. Cosa Nostra sta per ripresentarsi, e questa volta non ci sarà possibilità di resistere.
Le richieste sono esplicite, un milione al mese in cambio della benevolenza e della protezione della mafia. La strategia è precisa: far pagare poco, ma tutti. Un piccolo esborso mensile rende meno facile il rischio di una denuncia, e così si acquisisce un capillare controllo del territorio e si realizzano ingenti guadagni.
Miceli inizialmente paga, ma documenta le dazioni, registrando le conversazioni su nastri che conserva scrupolosamente. La decisione di denunciare sta maturando, quegli occhi che lo scrutavano la notte dell'incendio continuano a scavare nella sua anima.
A Gela intanto si scatena una guerra: il predominio della mafia viene insidiato da una nuova componente. È la stidda, fazione emergente, uomini ambiziosi e decisi a prendere il comando. Sono violenti e spietati, hanno dalla loro la determinazione di chi viene dalla strada e vuole conquistare il potere e la ricchezza a ogni costo. Il rapporto fra le due organizzazioni criminali, beninteso nessuna migliore dell'altra (!), è quello fra un campione di boxe desideroso solo di godersi il frutto del successo raggiunto e un giovane sfidante ancora in salita, ansioso di tirare pugni per conquistare il podio più alto.
In pochi mesi la zona è disseminata di cadaveri, il culmine si ha nel novembre del '90, con la "strage della sala giochi". La miccia è il mancato rispetto da parte di Cosa Nostra degli accordi per la spartizione delle tangenti sugli appalti. Il risultato è una tempesta di proiettili, che lascia sul terreno otto morti e tredici feriti.
I nuovi equilibri incidono sulle attività del racket. Il 28 febbraio 1991 presso la concessionaria del Miceli appiccano un altro incendio, che provoca cento milioni di danni. Dietro l'ultimo crimine c'è la volontà di un ulteriore sopruso, la vittima dovrà versare d'ora in poi una doppia tangente: cinquecentomila lire a Cosa Nostra, come prima, e altrettanto agli stiddari.
È la goccia che fa traboccare il vaso. Nino Miceli è sempre più convinto: deve denunciare tutto ai Carabinieri. Con loro ha già avuto contatti, con quelli di Gela e anche con il Comandante Provinciale di Caltanissetta, tenente colonnello Umberto Pinotti, che lo ha contattato dopo i delitti patiti e che ricorda: «…sulla strada a fare controlli, mentre un elicottero volteggiava sulla città».
Viene convocato al Comando della Compagnia. Il tenente Mario Mettifogo, gli occhi che lo scrutavano la notte del primo incendio, lo fa accomodare nel suo ufficio e gli parla da uomo a uomo. L'ufficiale gli dice che comprende la difficoltà di ribellarsi alla mafia, la paura; ma che ci sono tanti modi per collaborare. Basterà fornire informazioni in via confidenziale, l'Arma provvederà per suo conto a fare i dovuti riscontri. Deve solo fidarsi di lui. «Mi faccia lavorare» è l'esortazione finale, che non rimane inascoltata. L'imprenditore si fa coraggio: lo Stato è con lui, gli ha appena teso una mano. La decisione è presa, darà fiducia all'uomo seduto di fronte a lui, che ha capito essere davvero determinato a combattere la piovra.
Le conversazioni registrate diventano sempre di più, nei nastri del Miceli ci sono una trentina di voci diverse, elementi ottimi per lavorare. L'Arma passa al contrattacco con un lavoro investigativo imponente, e ha dalla sua parte la preziosa e intelligente collaborazione di una vittima del racket. Uno spaccato dall'interno del problema, piccole cose che fanno grandi differenze. Con i primi riscontri partono informative che contengono dati oggettivi, foto e nominativi di indiziati. Le intercettazioni possono essere mirate verso direzioni più precise. Gli appostamenti e i pedinamenti vanno a segno. Mesi di paziente lavoro, che nel tempo danno i loro frutti.
Mettifogo, che nel frattempo è divenuto capitano, stringe il cerchio delle sue indagini. Nel maggio '92, pochi giorni prima della strage di Capaci, arriva un determinante risultato. I carabinieri di Gela fanno irruzione in una casa del quartiere chiamato "Bronx". Sequestrano 11 mitra kalashnikov e droga, ma soprattutto trovano il libro mastro delle estorsioni. Un registro su cui sono annotate tutte le operazioni di pagamento delle tangenti. I commercianti segnati sono 50, pochi giorni dopo il capitano li riunisce in caserma e li esorta a collaborare. Se saranno uniti, la mafia non potrà attaccarli tutti. L'incontro non sortisce effetti immediati. I soggetti taglieggiati vengono convocati singolarmente, 21 di loro accettano di collaborare, anche se ciascuno lo fa in misura diversa. Per gli altri, il muro di omertà resta impossibile da scalfire.
Nino Miceli è in testa al gruppo dei coraggiosi. Firma il suo primo verbale il 26 maggio 1992, davanti al capitano Mettifogo, al tenente Giuseppe Castello e al brigadiere Salvatore Senia. Ne seguiranno molti altri. Consegna i nastri in suo possesso, formalizza tutte le informazioni che ha già fornito confidenzialmente, e il materiale probatorio si farà sempre più consistente. Il 7 ottobre scatta il blitz: 49 ordinanze di custodia cautelare in carcere che hanno l'effetto di colpire al cuore le organizzazioni criminali della zona.
Sembra essere la fine di un incubo, per il concessionario siciliano, ma i problemi sono tutt'altro che finiti. La risposta dei clan non si fa attendere. L'11 novembre Gaetano Giordano, titolare di alcune profumerie di Gela, viene ucciso a colpi d'arma da fuoco. Con lui viene ferito il figlio Massimo, che fortunatamente sopravvive. Giordano non era nel libro mastro. Due anni prima, però, aveva subito un tentativo di estorsione e ne aveva denunciato l'autore, facendolo arrestare.
Il segnale, inquietante, è molto preciso. Miceli sa di essere in pericolo. I carabinieri lo proteggono 24 ore al giorno, prima ancora che intervenga un formale programma di protezione. Il 9 dicembre 1993 si apre il processo "Bronx 2" alle cosche gelesi, con 47 imputati. Il coraggioso imprenditore si costituisce parte civile contro 20 di loro. Il dibattimento si conclude il 15 luglio 1996. Vengono inflitte pene per un totale di 450 anni di carcere circa, e le condanne vengono confermate in appello e poi in Cassazione. Nel frattempo Nino Miceli scompare. Con la moglie e i due figli deve lasciare Gela, dal 1994 è ammesso ad un programma di protezione quale testimone di giustizia.
Questa storia, che in breve abbiamo riepilogato per i nostri lettori, è contenuta nel romanzo da poco uscito Io, il fu Nino Miceli, sua prima fatica letteraria. Il titolo ha una chiave ironica, che riprende il Mattia Pascal del suo conterraneo Luigi Pirandello. A differenza della vicenda raccontata dal grande scrittore e drammaturgo siciliano, Nobel per la Letteratura , quella di Miceli, autore di se stesso, è una storia vera. Il "fu" è un modo per dire che l'uomo, avendo dovuto sottoporsi ad un cambio di identità, non esiste più con il nome con cui era nato. Oggi al suo posto c'è un imprenditore che vive in un'altra area d'Italia, svolge una nuova attività, e ha dovuto con non pochi problemi assoggettare allo stesso destino la moglie e i figli.
Ha accettato di parlare con noi, portandoci la sua personale testimonianza e spiegandoci il suo progetto editoriale: «Inizialmente non era mia idea scrivere questo libro perché fosse pubblicato. Volevo scrivere una cosa che servisse a me, alla mia famiglia, ai quattro amici che mi sono rimasti dopo tutto quello che ho vissuto. Una piccola autobiografia per uso personale, un centinaio di copie in tutto. Il mio editore ha pensato invece che fosse il caso di fare una cosa più ampia. Così è stato». Miceli, dopo tanti anni, è ancora in contatto con i carabinieri che hanno seguito le sue vicende, e anche in questa iniziativa li ha avuti al suo fianco.
Ci racconta ancora la sua vicenda, il fiume di parole assomiglia alle pagine del libro, dal quale non ci siamo staccati fino all'ultima riga.
Ma c'è una domanda che vogliamo porgli in modo esplicito. La risposta non ci sorprende: «Se tornassi indietro rifarei esattamente quello che ho fatto. Ho passato tanti guai, ho incontrato il dolore e la paura, ma un uomo ha la sua dignità, e non si può sottostare al ricatto di chi vuole il frutto del nostro lavoro senza aver fatto nulla». Miceli sogna di presentare il suo libro a Gela, paese a cui si sente ancora legato. «È un pezzo della mia vita, anche se è andata com'è andata, lì c'è tanta brava gente a cui voglio bene e che mi ha voluto bene. Credo inoltre che andare a portare la mia testimonianza proprio lì avrebbe un particolare significato».
Non possiamo che essere d'accordo e facciamo a nostra volta, nel nostro piccolo, una promessa. Se il progetto andrà in porto, quel giorno a Gela ci sarà anche Il Carabiniere.
Ci sono infiniti modi per affrontare le difficoltà della vita, tanti quante sono le persone su questa Terra. Ci sono molti modi per fare il mestiere di carabiniere. Il modo di cui abbiamo scritto si riassume in un'espressione, che abbiamo scelto come titolo. A testa alta.
A nostro modesto avviso, è quello più giusto.
Roberto Riccardi
L'AZIENDA
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SIAMO DI NUOVO
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lavorato sodo per
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sito in sicurezza all'estero.
Abbiamo cercato, già che
si doveva operare sul sito,
di rinnovarlo e migliorarlo.
Ci sono ancora alcune cose
da sistemare e lo faremo
nei prossimi giorni.
Ma intanto si riparte!
Andiamo avanti.
f.to i banditi
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E OMERTA'
Savona,
chi sapeva ed
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don Nello Giraudo
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